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lunedì 10 febbraio 2020

Cosa succede a Idlib?


di Gianandrea Gaiani 

Scontri annunciati e poi smentiti o ridimensionati tra truppe regolari siriane ed esercito turco, tensione alle stelle negli avamposti turchi nel nord ovest della Siria ormai circondati dalle truppe di Bashar Assad e russe; ed infine l’Iran, che a conferma della gravità della situazione, si offre di mediare tra Ankara e Damasco.
L’ennesima fase di tensione tra turchi e siriani, dopo l’attacco di Ankara nel nord della Siria dell’ottobre scorso, si è aperta nella provincia nord-occidentale di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli jihadisti sostenuti con armi e truppe dalla Turchia.

L’Esercito Arabo Siriano ha lanciato da un paio di settimane un’offensiva che potrebbe rivelarsi risolutiva spazzando via le milizie qaediste e di altri gruppi estremisti islamici e riconquistando la regione di confine con la Turchia nel nord ovest.
L'8 febbraio l’esercito siriano, sostenuto da aerei e truppe russi, ha conquistato dopo due giorni di duri combattimenti Saraqeb, crocevia strategico nella regione all'incrocio delle autostrade Latakia-Aleppo e Hama-Aleppo.
Mercoledì scorso i media governativi avevano annunciato la presa di Saraqeb, ma fonti sul terreno e miliziani anti-regime avevano smentito la circostanza.
L' Onu ha documentato lo sfollamento di più di 200mila persone nelle ultime due settimane dalla zona di Saraqeb e dei distretti circostanti investiti dall' offensiva governativa e russa. In tutto, sempre secondo l'Onu, sono quasi 600mila i civili sfollati a Idlib da inizio dicembre scorso, quando prese il via l’operazione siriana che potrebbe concludere la guerra civile in atto dal 2012.

Nei giorni precedenti, l’offensiva siriana aveva determinato numerosi contatti con le forze turche. L’uccisione di 5 soldati e 3 contractors di Ankara (già quasi 150 i caduti turchi in Siria), dopo che i siriani avevano lamentato l’arrivo di un convoglio di 240 camion turchi carichi di rifornimenti per i ribelli, aveva determinato un bombardamento di rappresaglia che avrebbe ucciso 13 soldati siriani e ferendone una ventina, anche se il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, ha rivendicato l'uccisione di 76 militari di Damasco.
Le forze governative siriane avevano poi circondato la postazione di osservazione militare turca di Tell Tuqan, nei pressi di Saraqeb, a est del capoluogo di Idlib e teatro degli scontri tra turchi e siriani.

Consapevole delle ripercussioni interne di un inasprimento del conflitto siriano, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha annunciato prossime consultazioni con Mosca, un asse strategico che finora ha garantito un equilibrio lungo tutto il confine siro-turco. Un accordo che prevedeva anche la tregua a Idlib anche se il legittimo desiderio di Assad di chiudere la guerra con la vittoria nell’ultima roccaforte dei ribelli jihadisti non può essere messo in discussione, soprattutto sul piano giuridico.

È evidente che la presenza di milizie jihadiste così come di militari turchi nel nord e statunitensi (questi ultimi intorno a un paio di pozzi petroliferi nella Siria orientale) è del tutto illegittima e autorizza Assad a compiere ogni azione per liberare il territorio nazionale.
La posizione russa mostra ambiguità poiché da un lato tende a rassicurare i turchi circa gli accordi raggiunti nelle zone di "de-escalation" ma poi appoggia con truppe e raid aerei ed elicotteri le offensive di Assad a Idlib.

Il 5 febbraio Erdogan è tornato a minacciare i siriani promettendo che Ankara "interverrà" se gli uomini di Damasco non si ritireranno entro febbraio dalle aree di Idlib dove sono presenti i turchi. "Ne ho parlato con il presidente russo Vladimir Putin e ho detto che il regime deve ritirarsi dalle aree dei nostri check point entro febbraio, come stabilito dagli accordi di Sochi, se il ritiro non avverrà saremo costretti a intervenire", ha detto Erdogan. "A Idlib abbiamo dei check-point costituiti d'accordo con la Russia e non vogliamo avere problemi con i nostri alleati con cui gli accordi e i patti saranno mantenuti. Con la Russia abbiamo relazioni ottime e ci aspettiamo sensibilità da parte di Mosca nel capire la nostra posizione in Siria”.
Damasco ha risposto con un portavoce del ministero della Difesa che ha reso noto che "i militari risponderanno a ogni attacco proveniente dalle forze turche nella regione di Idlib”.
L’obiettivo di Assad (e di Mosca) sembra quindi essere quello di ottenere rapidi successi sul fronte nord occidentale ma senza attaccare direttamente gli avamposti turchi per mettere Ankara di fronte alla rapida riconquista della provincia e indurre le truppe turche al ritiro.

Non è certo la prima volta che Siria e Turchia si trovano ai ferri corti dall’inizio del conflitto civile (largamente ispirato da Ankara) e certo Erdogan può mettere in campo un discreto dispositivo militare, ma sul fronte interno non può permettersi ulteriori gravi perdite tra i suoi soldati che avrebbero un forte peso sociale. Anche per questo i turchi impiegano preferibilmente, in Siria come in Libia, volontari e mercenari siriani arruolati tra i disertori sunniti dell’esercito di Assad, le milizie jihadiste sunnite e la minoranza turcomanna.

Fonte: https://lanuovabq.it/it/scontri-a-idlib-siria-e-turchia-non-si-tengono

I media non vi dicono perché la Turchia ha invaso la Siria. Facciamo chiarezza

Da parte dell’informazione su Idlib sembra in atto una congiura del silenzio. Anzi peggio: è in atto una distorsione delle notizie, una selezione e sostituzione delle parole (“ribelli” invece di pericolosi takfiri), la censura di altre. Finché a capovolgere in maniera diametralmente opposta i fatti, ci sono le campagne mediatiche dei soliti media center (in passato abbondantemente smascherati ma tornati magicamente alla ribalta).
Mentre questo fuoco di sbarramento informativo è per noi, la parte più dura la devono sopportare i siriani: le sanzioni internazionali rimangono, le centrali elettriche, i depositi di energia e impianti petroliferi siriani vengono attaccati frequentemente da droni di ”paesi” la cui tecnologia non è alla portata dei militanti jihadisti. Infine il simbolo ecco più efficace: Europa che si dice che lotta contro il terrorismo, ha minacciosamente mandato sulle coste della Siria la portaerei francese Charles de Gaulle. Non male per far sentire tutta la nostra amicizia, in un momento per la Siria di estrema difficoltà.
......
Poi c’ è un altro punto mai toccato riguardo alle tensioni tra Turchia e Siria di questi giorni. Nessuna testata giornalistica dice chiaramente cosa sta effettivamente facendo Erdogan,
 ovvero chi sono i soggetti che si combattono nella provincia di Idlib, chi la detiene, che tipo di vita conduce la popolazione e chi è l’aggressore. Non fornire mai questi elementi al giudizio pubblico, è molto scorretto da parte dell’informazione.

Il vero motivo per cui la Turchia non vuol mollare la Siria

Eppure è molto semplice : Erdogan”, fa ogni cosa, fa tutto ciò che sta facendo, ha preoccupazioni umanistiche perché semplicemente non vuol lasciare la Siria. Ed in questi giorni ha ammassato intorno ad Idlib una mole gigantesca di mezzi e truppe che vanno in crescendo. In questo contesto, gli Stati Uniti, già fanno per riavvicinarsi ad Erdogan mostrando il proprio sostegno. Nulla importa se in quell’area all’ufficio comunale siede il capo locale di al Qaeda, che ad amministrare la legge ci sia il tribunale della Sharia e che alle scuole i minorenni imparino solo la dottrina whabita. Non ci troviamo in Venezuela e non occorre un Guaido da contrapporre al cattivissimo Maduro, in Siria vanno bene i tagliagole di al Qaeda.
Ma lasciamo stare le ambiguità occidentali, alla sua lotta al terrorismo che serve solo a sfornare una nuova scusa utile all’occorrenza per intervenire dove si vuole o giustificare una sottrazione di libertà ai propri cittadini all’insegna della sicurezza. Torniamo a noi dicevo, torniamo ad Erdogan: a cosa mira Erdogan? Cosa si aspetta da tutto questo ”il Sultano”, a cosa mira? La risposta è semplice, anche se nessuno la proferisce: Erdogan semplicemente cerca di cambiare il quadro etnico nelle regioni del paese occupato dalla Turchia – per cacciare i curdi e gli arabi, per formare enclavi compatte per i turchi – Turkmeni siriani vicino ai turchi in lingua e cultura.
Nelle aree sotto il controllo dell’esercito turco, la lira turca è in circolazione e le scuole sono introdotte secondo gli standard turchi. Cosa c’è da capire? Viene a pensare che la stampa occidentale mentre si strappa le vesti per i civili che muoiono sotto i bombardamenti, sia in linea con Erdogan. Altrimenti caccerebbe le bande di Tharir al Sham da Idlib e restituirebbe la sovranità al paese. La stessa cosa farebbero gli USA la nord della Siria dove continuano ad uno stato sovrano (riconosciuto dalle Nazioni Unite), a distogliere risorse e a costruire basi.
L’Europa ed il mondo occidentale in genere, non parla chiaro, e questo non parlar mai chiaro non può uscire mai niente di buono anche se molti sono convinti del contrario. L’ambito che oggi detiene i principali diritti dell’uomo dell’uomo non si rende conto che agire in modo disonesto ed essere bravi solo con gli alleati ed agire in modo disonesto con tutti gli altri, alla lunga non paga. Agire in questo modo equivale a barare. Non si può intrattenere buoni rapporti solo con partner strategici: anche un piccolo paese deve poter essere sovrano, indipendente, rispettato  e vivere dignitosamente.

lunedì 3 settembre 2018

"Parametri e principi di assistenza" delle Nazioni Unite in Siria ....

Onu: alla Siria nessun aiuto per la ricostruzione se Assad non verrà rimosso
di Patrizio Ricci

Recentemente sono stati diffusi alcuni documenti interni delle Nazioni Unite riguardanti la Siria. Questa informazione non era destinata alla pubblicazione, dal momento che le istruzioni contenute nelle linee guida interne stilate sotto forma di direttiva interna, contraddicevano direttamente l’etica dell’organizzazione.

La suddetta direttiva prevede che la ricostruzione del paese dovrà iniziare solo quando in Siria sarà sostituito il governo attuale con uno gradito alle potenze occidentali. In altre parole, la ricostruzione potrà avvenire solo in caso di un colpo di stato, ovvero su precise indicazioni degli aggressori. Ancor più chiaramente: non è prevista la possibilità che un voto democratico possa far risultare ancora Assad come la scelta preferita dei siriani.
La notizia dell’esistenza di questo ‘memorandum’ è  stata resa nota dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Il responsabile del dicastero degli esteri di Mosca ha definito questo documento un esempio di come i paesi occidentali  manipolano le organizzazioni internazionali. Il testo del documento è stato pubblicato sulla rivista russa Kommersant.

Un passaggio della direttiva dice chiaramente che “Le Nazioni Unite, con l’attiva partecipazione del Segretario Generale, cercheranno di garantire il maggior flusso possibile di aiuti umanitari in Siria, anche direttamente, per garantire la non interferenza nelle sue operazioni, secondo le operazioni di supporto previste nel Piano della risposta umanitaria (UNCHR)” ma gli aiuti saranno limitati agli aiuti umanitari, “solo dopo l’effettiva e completa transizione politica del potere, le Nazioni Unite saranno pronte a promuovere la ricostruzione”.

Secondo il quotidiano “Kommersant”, l’autore della direttiva – è l’ex sottosegretario permanente delle Nazioni Unite per gli affari politici Jeffrey Feltman , che ha cessato di ricoprire il suo incarico la scorsa primavera. Gli Stati Uniti hanno ripetutamente sottolineato che la ricostruzione della Siria sarà impossibile senza una soluzione politica gradita all’occidente.
Ciò vuol dire che è irrilevante che si addivenga  semplicemente ad una soluzione democratica , condivisa e gradita al popolo siriano ma che tale scelta dovrà essere conforme agli interessi degli USA e a quelli dei principali alleati.

Se da un lato queste evidenze rivelano l’estrema  dipendenza dell’Onu dall’occidente, certe dinamiche – secondo un punto di vista estremamente disincantato – non sorprendono: sono i paesi occidentali che pagano l’Onu per la maggior parte del bilancio e tra una soluzione legittima e l’aiuto alla Siria amica della Russia e dell’Iran, preferiscono una soluzione illegittima, laddove il prolungare la sofferenza del popolo siriano è solo un tragico effetto collaterale , addirittura auspicabile se serve ad accelerare il raggiungimento degli obiettivi prefissati (leggesi ‘sanzioni’ e ‘terrorismo’).

venerdì 9 giugno 2017

La strategia di Ue e Usa? Sanzioni, soldi ai terroristi e bombe sui siriani


di Patrizio Ricci
IL SUSSIDIARIO, 9 giugno 2017 
Al recente G7 di Taormina, la decisione di Trump di tirare fuori il suo paese dagli accordi di Parigi sul clima è stata fortemente criticata dai leader europei. Ma — come ha detto l'ambientalista Rebecca Tarbotton (presidente di Rainforest Action Network) — se è vero che gli effetti dei cambiamenti climatici riguardano tutti, è altrettanto vero che "il compito della nostra epoca non si esaurisce solo nel far fronte al cambiamento climatico" e che "occorre guardare più in alto e più in profondità perché l'umanità ha bisogno di un salto di civiltà". E' proprio questo che i leader europei non vogliono capire: tutte le crisi ed i problemi globali in atto nascono da un sistema basato su valori sbagliati e non a causa dei nanogrammi delle particelle delle polveri sottili (queste sono solo uno degli effetti).  L'Unione Europea sembra affetta da una sindrome dissociativa: un giorno i suoi leader si preoccupano per le piogge acide nel mondo; poi a seguito di un attentato, promettono lotta al terrorismo,  ma a fronte di questa narrativa, i fatti dicono tutt'altro: l'Europa supporta e continua a finanziare il terrorismo. 
La settimana scorsa ha rinnovato le sanzioni contro la Siria che impediscono l'importazione di materiali e generi di ogni sorta: anziché i terroristi, la Ue colpisce il latte in polvere, le sementi, i pezzi di ricambio di macchinari, i lacci per le scarpe (il regime potrebbe usarli per legare i prigionieri), i medicinali (per effetto delle sanzioni in Siria non è più possibile trattare le malattie oncologiche e quelle croniche). L'enormità di queste sanzioni è tale che il tomo che le ospita supera le 2300 pagine (se si considerano tutti i link che ne fanno parte integrante). Infine, le sanzioni hanno avuto come effetto quello di produrre più morti di quelle dovute ai combattimenti stessi. 
Sorda alle evidenze, l'Unione Europea è stata sorda anche ad ogni voce che si è levata per l'interruzione delle sanzioni, compresa nel 2016 quella dei vescovi siriani.
Se poi esaminiamo la principale motivazione che il provvedimento porta con sé per giustificarle, ci accorgiamo che è addirittura farneticante. La principale giustificazione su cui si reggono le sanzioni è infatti che "Assad reprime il suo popolo". Ebbene, questa è una spiegazione scritta in perfetta malafede perché è un dato che in realtà la gente lo sostiene. Il supporto da parte del popolo siriano al presidente Bashar al Assad non è venuto mai a mancare, neanche all'inizio dell'insurrezione. Lo rilevava già nel 2012 il  "YouGov Siraj" commissionato dal Qatar, cioè uno dei più acerrimi nemici di Assad. La prospezione rilevava che il 55 per cento dei siriani già all'indomani della rivolta, continuava a sostenere Assad. Inoltre, a sconfessare quanto sostenuto dall'Unione Europea, c'è addirittura un report della Nato del 2013, secondo il quale il 70 per cento della popolazione sosteneva Assad mentre per il 20 per cento si diceva neutro e solo il 10 per cento era dalla parte dei ribelli (World Tribune). Infine, anche due distinti sondaggi dell'Orb International, hanno rilevato (nel 2014 e poi nel 2015) che la maggioranza dei siriani che credono che il governo di Assad meglio rappresenti i loro interessi e aspirazioni, sono in numero superiore a quelli che preferiscono uno qualsiasi dei gruppi di opposizione.  
In base a questi risultati oggettivi, è evidente che le decisioni prese dall'Unione Europea vanno contro la volontà del popolo siriano. 
Ma allora quali interessi va difendendo l'Unione Europea? E' chiaro che Bruxelles tiene fede a ragioni di profitto e non alla verità: per questo ha scelto la dissimulazione. Di conseguenza, i media hanno diffuso un'informazione totalmente falsa e funzionale alle agende governative. I mezzi di comunicazione si sono rivelati sempre ostili al governo siriano colpevole di "bombardare il suo stesso popolo" e di "assediare" Aleppo (occupata da al Qaeda); quando però le forze irachene e la coalizione a guida Usa hanno liberato la città irachena di Mosul (occupata dall'Isis), hanno minimizzato sulle perdite civili ed hanno decretato la sua liberazione. Eppure le perdite civili per la liberazione di Mosul sono state ingenti almeno quanto quelle causate per la liberazione di Aleppo. 
E'evidente che noi siamo fruitori non di informazione ma di propaganda: secondo Airwars (organizzazione britannica che tiene il conto dei non-combattenti uccisi negli attacchi aerei), a causa dei bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti su Mosul, solo nel mese di marzo sono morte 1.257 persone. Successivamente i morti ad opera della coalizione anti-Isis anziché diminuire sono aumentati: è successo in queste ultime settimane, quando dopo la liberazione di Mosul, gli Usa e gli alleati curdi del Syrian Democratic Force (Sdf) hanno lanciato l'operazione per liberare Raqqa dal califfato. Anche in questo caso, non si è risparmiato l'uso della forza: la città è stata bombardata anche con i B52.  
Aerei Coalizione colpiscono Raqqa con fosforo bianco 
In breve Raqqa si è trasformata in un inferno: la situazione è diventata così drammatica per la popolazione che martedì scorso anche l'Onu ha fortemente criticato i bombardamenti della coalizione. Stessa cosa ha fatto l'Osservatorio Siriano per i diritti Umani — che notoriamente è a favore degli Usa e sostiene i ribelli — ha denunciato centinaia di vittime civili nella "capitale del califfato".
I bombardamenti aerei, accompagnati dall'artiglieria americana e britannica, di stanza in una fabbrica di zucchero a nord della città, hanno messo i civili in uno stato di panico, paura e confusione. La situazione è resa ancora più pesante per il fatto che l'Isis impedisce ai residenti rimasti di lasciare la città. La situazione umanitaria è notevolmente peggiorata a causa della mancanza di personale medico e medicine, inoltre da quattro giorni c'è la completa cessazione dell'elettricità, e l'assenza completa riguarda anche il carburante e la farina. Inoltre, tenendo fede sull'utilizzo dell'Isis anche in chiave anti-Assad, le Syrian Democratic Force (Sdf) e le truppe speciali occidentali hanno concesso una via di fuga a migliaia di militanti dell'Isis verso Deir Ezzor e Palmyra. L'intenzione è chiaramente quella di danneggiare l'esercito siriano che presidia quelle zone e che avanza verso Deir Ezzor. L'aviazione russa per contenere il pericolo, deve effettuare ogni giorno voli ininterrotti per attaccare e neutralizzare le autocolonne dell'Isis. 
Questo è uno spaccato del clima, del "modus operandi" e del non senso introdotto in Siria. Dov'è la repressione di Assad in atto contro il suo popolo? I fronti attualmente aperti in territorio siriano hanno il solo scopo di far cessare una guerra che continua ad esistere solo per volere della Comunità internazionale e non per volontà dei siriani. La comunità internazionale, per scarsità di combattenti disposti a contrapporsi alle forze governative, ha addirittura dovuto far ricorso a forze proprie. In questo momento, forze speciali norvegesi, americane e britanniche sono in territorio siriano per proteggere i propri mercenari raccolti in Giordania e nelle zone rurali siriane, tra le tribù notoriamente disposte a dare il proprio contributo al miglior offerente.
Mentre continua a consumarsi questa tragedia, l'Europa senza cercare le radici del male là dove si vede con tutta evidenza, continua la sua guerra contro se stessa. Intanto, illumina di verde i suoi municipi e organizza manifestazioni a difesa del clima. Naturalmente la decisione come sempre è "double face": un occhio al clima ed un occhio a Trump, per vedere se stavolta cade.

mercoledì 22 febbraio 2017

Dopoguerra e petrolio, chi ricostruirà la Siria


Il Sussidiario, lunedì 20/02/2017
di Patrizio Ricci

Il 16 di febbraio si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, il secondo round di trattative dirette tra governo siriano e opposizione armata. L'incontro non è cominciato con i migliori auspici: per minare le trattative, la delegazione dei ribelli è arrivata con un giorno di ritardo. Tale atteggiamento ha generato non poca confusione e disappunto tra le parti. Tuttavia, cercando di salvare il salvabile, i funzionari russi hanno insistito per spostare l'apertura dei colloqui a mezzogiorno del giorno successivo. Così l'incontro si è tenuto senza ulteriori interruzioni. Nella conferenza stampa finale il rappresentante siriano Bashar Jaafari si è però dimostrato molto contrariato per l'atteggiamento dei rappresentanti delle milizie armate. Nello stesso tempo, ha denunciato la mancanza di serietà della Turchia perché ancora "continua a facilitare l'ingresso di decine di migliaia di mercenari stranieri provenienti da tutto il mondo" in Siria. Jaafari ha anche detto che Ankara, come garante del cessate il fuoco, non può continuare a svolgere il ruolo di "pompiere" e nello stesso tempo di "piromane".

Ciononostante, si può dire che la riunione sia stata coronata dal successo, tenendo anche conto che si tratta di una riunione preparatoria a quella successiva che si terrà tra breve a Ginevra. In questo senso, è positivo che comunque si sia riuscito a prolungare ulteriormente il cessate il fuoco ed a sottolineare la necessità di distinguere in maniera sempre più precisa i gruppi che sono disposti ad una soluzione politica da quelli che la rifiutano. Questi ultimi (che continuano ad essere nel libro paga dei sauditi e dei qatarioti), per ottimizzare le risorse disponibili, coordinarsi e penetrare più profondamente sul territorio siriano, hanno dato vita il 28 gennaio ad un nuovo raggruppamento chiamato Tharir al Sham. E' proprio questa nuova formazione che sta dando filo da torcere all'esercito siriano a Daraa, a sud della Siria.

Tuttavia, mentre i combattimenti continuano specialmente contro l'Isis, l'esigenza più urgente per la popolazione siriana non è di ordine politico ma di aiuto immediato e di ricostruzione.
Venendo incontro a questi bisogni, il centro russo per la riconciliazione nazionale continua a mediare con i gruppi ribelli promettendo un ruolo nella ricostruzione del paese: finora sono più di 900 gruppi armati che si sono riconciliati con il governo. L'intensa attività diplomatica di Mosca è riuscita ad attenuare l'atteggiamento ostile di Turchia e Giordania nei confronti della Siria: Erdogan, con l'operazione "scudo dell'Eufrate" a nord della Siria, ha reindirizzato le bande armate filo-­turche in funzione anti-­Isis e anti curda. La diminuzione delle pretese turche ha convinto Re Abdullah di Giordania a ritirare le sue milizie dalla Siria. Il sovrano hascemita sta attuando un più stretto controllo dei confini ostacolando i rifornimenti forniti da sauditi e qatarioti attraverso le frontiere giordane.

Parlavamo della necessità di ricostruzione: la Siria è completamente distrutta, ma visto che è ricca di fonti energetiche queste potranno essere utilizzate come mezzo per finanziare la ricostruzione del paese. Le risorse interessano tutti, tant'è che sono anche la chiave di lettura della dislocazione di Isis in Siria. Non so se ci avete fatto caso, l'Isis si è dislocato solamente in zone ricche di petrolio: i pozzi petroliferi di Al­Tanak, Al­Omar, AlTabka, Al­Harati, Al­Shula, Deira, Al­Time e Al­Rashid, sono situati tutti in zone conquistate dal califfato lungo il corso del fiume Eufrate.
Il basso costo del greggio e la presenza a Raqqa di raffinerie spiega anche perché lo stato islamico l'abbia scelta come capitale. Pure l'insistenza del califfato nel conquistare Deir el Zor e Palmyra non è casuale: la sola regione di Deir el Zor produceva a metà 2015 (prima dell'intervento dei russi) 34­40 milioni di barili di greggio al giorno.
La conservazione di risorse vitali gioca un ruolo di primo piano nelle strenua resistenza del governo per non cedere queste aree. Il fattore petrolio spiega anche perché l'obiettivo principale dei turchi continui ad essere la città di Al Bab (a nord di Aleppo): secondo i dati del Financial Times, Al Bab insieme ad Aleppo è stata uno dei principali mercati per la vendita illegale di prodotti petroliferi in Siria con la Turchia. Allo stesso modo, la presenza di due raffinerie ha indirizzato la scelta dei ribelli di conquistare la città di Idlib: anche in questo caso, le fonti energetiche e la vicinanza al confine turco sono due ottime ragioni. Il desiderio di accaparrasi il petrolio è anche una delle chiavi di lettura del vecchio piano "B" americano (o "Safe zones" di Trump) che prevede la divisione della Siria in zone etniche (sunniti, sciiti ecc.) ma mira soprattutto alla sottrazione delle fonti energetiche al governo centrale.

In questo contesto, l'Europa non è rimasta a guardare: ci sono segnali che la "vecchia Europa" stia valutando i benefici economici derivanti dalla partecipazione alla ricostruzione della disastrata economia del paese.
In questo senso, nelle ultime settimane sono avvenute frequenti visite a Damasco di delegazioni parlamentari europee: l'ultima è stata una nutrita delegazione francese (ed è la prima volta dall'inizio del conflitto). Anche le interviste ad Assad da parte dei media occidentali si sono moltiplicate: le ultime sono state quelle di Yahoo News e della francese Europe 1, TF1 e LCI.
E' ingenuo pensare che queste delegazioni abbiano agito senza il placet della leadership europea e dei rispettivi governi: è chiaro che i paesi europei stiano cercando di riposizionarsi per trarne vantaggio. Tuttavia, per ora non si dovranno fare grandi illusioni: nel corso di un incontro con parlamentari belgi, Assad ha detto chiaramente che dall'inizio della guerra, la maggior parte dei paesi europei hanno adottato una politica non realistica verso la Siria e ha aggiunto che questa politica "ha isolato ed eliminato qualsiasi ruolo che l'Europa ora potrebbe svolgere a causa del proprio sostegno alle organizzazioni che hanno praticato ogni forma di terrorismo contro il popolo siriano".
Ed ancor più esplicito è stato il ministro dell'Economia siriano Adib Mayala, che su Ria Novosti ha detto: "alcuni paesi stanno cercando di penetrare con imprese e fondi non governativi di loro proprietà, che vengono creati nei paesi vicini della Siria come il Libano, così come nei paesi che sono rimasti neutrali durante la crisi". Il ministro ha precisato che contro tale prospettiva, il governo siriano ha promesso "uno stretto monitoraggio di coloro che vogliono partecipare al restauro dell'economia siriana, vanificando i tentativi di intervento di coloro che di recente hanno partecipato alla distruzione dello Stato".

In sostanza, chi beneficerà dei vantaggi derivanti della ristrutturazione dell'economia siriana saranno i più stretti alleati di Damasco: Mosca, Pechino e Teheran. La cooperazione con questi tre paesi, inserita in un piano per rilanciare l'economia, si svolgerà in molti settori come l'industria petrolifera, l'agricoltura, le comunicazioni. 
Invece, per quei paesi che hanno sostenuto l'attività delle bande armate in Siria (ed ora si dicono interessati al recupero dell'economia siriana) il ministro Mayala pone come condizione preliminare che "riconoscano il proprio errore e si scusino con il popolo siriano": sarebbe la cosa da fare più semplice e giusta, ma scusarsi ed imparare dai propri errori sembra non essere nello stile dei paesi europei.

lunedì 24 ottobre 2016

La tregua rifiutata dai jihadisti, il trasferimento di ISIS da Mosul, la carità dei monaci

missile lanciato la sera del 22 ottobre dai jihadisti sul Carmelo di Aleppo: fortunatamente inesploso, altrimenti avremmo dato addio alla Comunità delle Sorelle Carmelitane!

di Patrizio Ricci
IL SUSSIDIARIO, 24 ottobre 2016

Continua la campagna mediatica a tutto campo e le condanne contro Mosca e Damasco: venerdì il consiglio dell'Onu per i diritti umani ha condannato i bombardamenti russi ad Aleppo ed è stata giudicata "patetica" quella che rappresenta l'unica possibilità di soluzione politica del conflitto: la richiesta di separare l'opposizione armata dai gruppi jihadisti che il rappresentante russo aveva chiesto di inserire come emendamento. La risoluzione non ha avuto nessuna considerazione del fatto che la Russia dal 20 ottobre ha interrotto i bombardamenti mirati sui quartieri di Aleppo est ed ha aperto 8 corridoi umanitari (di cui 2 per i combattenti che decidessero di uscire indenni) per consentire l'afflusso di aiuti all'interno dell'enclave e la fuoriuscita di civili. E in tema di "diritti umani", la risoluzione ha ignorato che la cittadinanza residente ad Aleppo est è ostaggio dei terroristi. Infatti i corridoi umanitari aperti dai russi sono sotto costante tiro delle armi leggere e delle bombe di mortaio dei guerriglieri. L'agenzia Sir (Servizio Informazione Religiosa) ha riportato quando sta accadendo: "Aleppo, al via la tregua decisa da Mosca e Damasco. Ma i jihadisti sparano sui civili che vogliono lasciare la parte Est della città". Ulteriori dettagli erano stati dati durante il briefeing tenuto il 13 ottobre dal Capo di stato maggiore delle Forze armate russe S.F. Rudskogo: la maggior parte dei combattenti anti­governativi non solo rifiuta di lasciare le proprie posizioni ma non consente neppure la fuoriuscita dei civili. E se questi ultimi insistono, vengono giustiziati pubblicamente.
Il sabotaggio dei ribelli ha impedito ai convogli umanitari promessi dall'Onu di accedere ai quartieri isolati. In questo contesto deteriore di grave sofferenza per i civili, la Ue ha deciso di inasprire ulteriormente le sanzioni contro la Siria. 
Intanto, i cannoneggiamenti sulle zone residenziali di Aleppo ovest non si sono mai interrotti: solo nella giornata di venerdì hanno causato 8 morti e 30 feriti. La notizia di questo quotidiano stillicidio umane, è confermata da tutti i vescovi di Aleppo. Il problema di fondo è evidentemente che gli Usa ed i loro alleati rifuggono la stessa idea di Aleppo in mano governativa: se avessero voluto, minacciare i ribelli di togliere loro il supporto sarebbe stato sufficiente per ottenere il rispetto delle tregue. E' tragicomico che solo Erdogan abbia tirato fuori 150 uomini della milizia Ahrar-al Sham ed abbia addirittura promesso a Putin di adoperarsi per far uscire al Nusra. Tuttavia gli eventi hanno preso un segno diverso: nella zona sudovest della città, ai jihadisti sono arrivati di rinforzo più di 1200 uomini molto ben equipaggiati e pronti a sferrare un contrattacco. Così la fragile tregua è già caduta: ieri sono ricominciati i bombardamenti russi e gli scontri tra l'esercito siriano e le milizie anti­Assad lungo la linea strategica nel sud­ovest di Aleppo dove queste ultime si stavano riorganizzando.
Le brutte notizie arrivano sempre insieme: un diplomatico russo ha dichiarato all'agenzia Ria Novosti che ai terroristi dell'Isis che lasceranno Mosul, sarà assicurata dalla coalizione Usa una via di fuga verso il nord della Siria: "Più di novemila militanti Isis saranno ri­dispiegati da Mosul alle regioni orientali della Siria per sferrare una offensiva di grandi dimensioni, che comporterà la cattura di Der Ezzor e Palmira". La notizia è confermata anche dall'agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu.
Questa prospettiva sembra sia presa molto sul serio dal comando russo­-siriano visto che due divisioni meccanizzate provenienti da Damasco sono giunte sabato ad Aleppo. Anche la componente aeronavale russa sarà rinforzata: la portaerei Kuznecov naviga nel Mediterraneo e dirige verso la Siria accompagnata da un'imponente squadra navale. Inutile dire che il capo della Nato Jens Stoltenberg già vede la cosa come una minaccia. Purtroppo negli ultimi tempi sembra che la Nato, in ogni momento di crisi, quando si è ad un passo dal risolverla pacificamente, ritiri sempre la mano. Chi oggi dice di "percepire la minaccia" è però lo stesso Occidente che sta appoggiando la "rivoluzione" innescata da gruppi settari che non si sarebbero mai mossi senza un sicuro appoggio militare, politico e finanziario. 
E' un mondo che, barando, vuol cambiare le carte in tavola: nel caso siriano, anziché rispettare e trarre vero profitto da secoli di cultura e memoria di cui è ricca la Siria, vuole fare tabula rasa e poi lucrare secondo le ambizioni di pochi.
Non è questa la strada della presenza cristiana in terra siriana. Ed i tanti monasteri cristiani che ne portano memoria, lo dimostrano. Sono letteralmente piantati nel deserto, ma anche in mezzo alla guerra costituiscono luoghi di amicizia concreta per cristiani e musulmani. La presenza del monastero di Mar Yakub in Siria, nella località di Qara sui monti Qalomoun, vicino al Libano, risponde alle molte domande sollecitate da queste righe di cronache contraddittorie.



La risposta dei monaci è stata tener viva la fede. Quando la carmelitana franco­libanese madre Agnese visitò per la prima volta nel 2000 quei luoghi, trovò solo dei ruderi. Ma da quelle rovine è nata una comunità monastica che ha scelto di pregare soprattutto per preservare l'unità della Chiesa. Poi, da quando è cominciato il conflitto nel 2011, la comunità ha cominciato ad organizzare distribuzioni per venire incontro ad un bisogno enorme. I convogli di cibo e abbigliamento, organizzati dalle monache e monaci del monastero, sono arrivati lontano, fino alla campagna a sud di Aleppo, dove ci sono parecchi campi profughi e non arrivano le organizzazioni umanitarie. Madre Agnese ha promesso alle famiglie, la maggior parte musulmane, di continuare a soccorrerle nei bisogni primari. Da qui la grande operazione della consegna quindicinale dei pacchi a cui ci chiede di collaborare. Potrete voi stessi visitare il sito Mar Yakub Charity per vedere le iniziative in corso. Non sono iniziative che fanno 'loop' su se stesse ma che indicano la speranza di cui tutti abbiamo davvero bisogno.

lunedì 5 settembre 2016

A Mhardeh, i terroristi moderati preparano una strage di cristiani

unità armate di islamisti appartenenti all'opposizione siriana avanzano verso
la cittadina di Mhardeh, città natale del patriarca Ignazio IV Hazim,
 situata nella campagna di Hama.
 
Mhardeh costituisce uno dei maggiori agglomerati di greci ortodossi in Siria

IL SUSSIDIARIO, 5 settembre 2016
di Patrizio Ricci

La settimana scorsa i gruppi jihadisti Jund al Aqsa, Fatah al­Sham e Jaish al­Nasr, Jaish al­Izzah del Free Syrian Army (ed altri), tutti appartenenti al coordinamento Jeish Al­Fatah, hanno lanciato una violenta offensiva a nord della città siriana di Hama. Gli aggressori, provenienti da Idlib e da Aleppo, hanno avuto immediatamente ragione delle esili postazioni difensive della forza di nazionale di autodifesa (Ndf). I militanti di Jeish Al­Fatah si sono lanciati da più direzioni contro i check­point con veicoli kamikaze imbottiti di esplosivo ed hanno fatto largo uso di missili Atgm/TOW (regalati in quantità enormi dagli Usa durante la tregua del 27 febbraio). La situazione a nord di Hama è davvero preoccupante: nonostante i bombardamenti aerei siriani e russi, numerosi villaggi situati nella campagna a nord di Hama sono caduti sotto i colpi inferti dai combattenti islamici, forti anche di agguerritissime unità cecene. 
L'obiettivo ambito è prendere Hama (350mila abitanti) e Mhardeh, la città cristiana più popolosa della Siria. Mhardeh oltre alla sua indiscussa importanza religiosa e storica ha una grande importanza strategica. Per la sua posizione è la porta di ingresso alla fertile valle del fiume Oronte: la valle ospita la maggior parte delle principali minoranze presenti in Siria, compresa quella cristiana situata ad est dell'Oronte. L'attacco che i terroristi stanno compiendo è del tipo "shock and awe" (colpisci e terrorizza) ed ha lo scopo di alleggerire l'offensiva governativa ad Aleppo. Nello stesso tempo, l'obiettivo è dimostrare ai cristiani che il governo non li protegge e di punirli per il loro sostegno. 

Intanto, a Mhardeh la popolazione non dorme e molti cittadini si uniscono all'Ndf (forze difesa nazionale), e ai volontari cristiani del posto si sono aggiunti circa 1000 uomini dell'esercito arrivati venerdì, volontari cristiani Ndf accorsi da Damasco e giovani assiri della milizia cristiana Sootoro proveniente da Qamishli.
Con i terroristi alle porte, gli abitanti temono che possa ripetersi quando avvenne nel villaggio cristiano siro-­ortodosso di Sadad nell'ottobre 2013. Si tratta della strage più efferata di cristiani di tutta la guerra in corso: tutte le quattro chiese del paese furono saccheggiate e distrutte e 45 civili innocenti, donne e bambini furono torturati a morte dalle milizie jihadiste. I corpi mutilati di sei persone appartenenti ad una stessa famiglia furono trovati in fondo a un pozzo. Per una settimana, prima della riconquista governativa, 1.500 famiglie furono tenute come ostaggio e trattenute come scudi umani. 
Ed un mese prima del massacro di Sadad, anche la cittadina di Maalula  (dove si parla ancora l'aramaico come a Sadad) ebbe i suoi martiri. Successivamente, il dilavamento delle milizie settarie lungo la Valle dell'Oronte moltiplicò ovunque questi episodi di violenza e sopraffazione. Ecco in una breve registrazione come riferiva quelle circostanze padre Pizzaballa, l'allora Custode di Terrasanta. Si tratta di una lettera indirizzata nel 2013 al card. Sandri (Prefetto della Congregazione per le chiese orientali) e letta dallo stesso, nel corso dell'incontro ''cosa vogliono i siriani" svoltosi a Roma il 17 dicembre 2013. Il documento mostra come le violenze settarie dei "ribelli" contro i cristiani siano state sempre una costante nell'arco della cosiddetta "rivoluzione" fino a costituirne una caratteristica indissolubile. Mhardeh stessa (che subisce attacchi ininterrotti dal 2012) è testimonianza vivente di questa situazione. E' evidente che ciò che accomuna queste azioni non è certo la volontà di indire libere elezioni (il cui esito, vista la strenua resistenza delle popolazioni, è scontato), bensì di imporre un rigido stato islamico basato sulla sharia.
Tuttavia, nonostante le numerose evidenze, le persecuzioni contro i cristiani saranno considerate dalla Comunità internazionale "degne di attenzione" solo in seguito, quando una delle tante fazioni islamiche, l'Isis, intaccherà gli interessi occidentali in Iraq. Sarà comunque un'attenzione parziale, limitata solo ai soprusi compiuti dallo Stato Islamico. 
I fatti però sono di altro segno: la battaglia in corso a nord di Hama, con le notizie di stragi di civili e decapitazioni di militari, provenienti dai villaggi di Souran, Alfaya e Tayeb Al­-Imam (in quest'ultimo è stata decimata tutta la popolazione) dimostra per l'ennesima volta che Isis, al Nusra e Free Syrian Army (così come pure le altre svariate sigle combattenti) hanno lo stesso radicalismo religioso, operano tutte all'unisono e rispondono alle direttive delle stesse cabine di regia. Lo Stato Islamico, per impedire che l'esercito siriano mandi cospicui rinforzi nella zona di Hama, lo tiene impegnato nella zona desertica tra Hama ed Homs mediante continui attacchi. Questo tipo di azioni coordinate sta avvenendo anche in altre località della Siria come Kuwaires (Aleppo) dove l'Isis non ha alcun interesse strategico.
Basta focalizzare l'attenzione su una qualsiasi località della Siria per capire la verità di ciò che sta avvenendo, eppure il Dipartimento di Stato USA asserisce che il pericolo sia costituito esclusivamente dallo Stato Islamico (Isis) e che, perciò, gli altri gruppi jihadisti non sono da considerare terroristi. E' chiaro che Washington (e gli alleati nell'area) non avendo mai rinunciato a rovesciare lo stato siriano (secondo progetti già in piedi dal 2001) abbisognano di distinguere tra le varie "sfumature di grigio" della stessa matrice ideologica fondamentalista, secondo quello che il mercato offre. Così quando gli abitanti del posto si rifiutano di abbandonare il loro passato si fa tabula rasa, per far regredire le persone e spezzare la loro volontà.

venerdì 28 agosto 2015

Se non si fermano le guerre non si fermano neppure i rifugiati.

Sono tanti i cristiani siriani che trovano la morte nel Mediterraneo


Aiuto alla Chiesa che Soffre, 28 agosto 2015

«Molti cristiani hanno cercato un futuro migliore in Europa attraversando il Mar Mediterraneo. Alcuni ce l’hanno fatta, altri hanno trovato la morte in mare. Ma la disperazione continua a spingere i nostri fratelli nella fede a far salire i propri figli su quei barconi».

Al telefono da Damasco, Samaan Daoud racconta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre il dramma dei tanti cristiani di Siria che in oltre quattro anni di crisi sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese, soprattutto a causa della loro fede. Secondo quanto riferito ad Aiuto alla Chiesa che Soffre dall’agenzia Habeshia, tra i tanti profughi che approdano sulle coste italiane, i siriani rappresentano il gruppo maggiormente numeroso. E tra loro è alto il numero di cristiani. La stessa agenzia ha rivelato come negli ultimi anni, la percentuale dei cristiani tra i naufraghi che giungono sulle nostre coste sarebbe aumentata di circa il 30%.

 «Almeno tre volte a settimana un pullman parte da Duelha e Tabbale, due dei principali quartieri cristiani di Damasco, con a bordo venti o trenta ragazzi giovanissimi in cerca di un futuro migliore. Un mio amico ha da poco fatto partire suo figlio, di appena 16 anni». Il viaggio costa almeno 2500 dollari. Dalla capitale siriana si arriva a Beirut, da dove i profughi si imbarcano per raggiungere la Turchia e poi l’Europa. «Chi può permettersi di pagare di più, può viaggiare in navi sicure. Gli altri devono rischiare la vita sui gommoni».

In questi anni, molte famiglie siriane hanno trovato la morte in mare. Un cristiano è naufragato appena due settimane fa assieme alla sua famiglia al largo delle coste turche. L’uomo è stato seppellito in Turchia, mentre i corpi della moglie e dei suoi due figli non sono mai stati ritrovati. «Lo conoscevo bene, viveva nel mio quartiere e frequentava la parrocchia delle suore del Buon Pastore non lontano da casa mia». Altre famiglie cristiane provenienti dal Nord della Siria sono morte nel Mediterraneo qualche mese fa.
«Sono tutti volti a noi cari e conosciuti, come un mio amico farmacista che un anno e mezzo fa è stato accoltellato su un barcone e poi gettato in mare».

Nonostante le molte tragedie, la tragica situazione siriana spinge sempre più cristiani a cercare un futuro migliore all’estero. «Un mio amico ha messo in vendita la sua casa per ottenere il denaro necessario a partire. Come lui molti altri che quasi sicuramente non torneranno più in Siria. E questo è il grande pericolo che affrontiamo tutti noi cristiani d’Oriente».



 di Patrizio Ricci

Sono le notizie più diffuse quotidianamente: quelle sui migranti. Come sempre, ci descrivono tutti i particolari. Cosa indossano, in quanti arrivano, le loro condizioni, i salvataggi in mare. Ci tengono aggiornati delle drammatiche morti durante il tragitto. Ci raccontano le sofferenze, gli abusi subiti, le vessazioni e le percosse durante il viaggio… Ci parlano con disprezzo del governo ungherese che innalza muri, ed esaltano il nostro governo che invece – dicono –  è il migliore. Dicono che il trattato di Dublino va corretto e che gli altri paesi se ne lavano le mani.
Il messaggio si sussegue continuamente durante la giornata sui nostri schermi televisivi, viene ripetuto incessantemente. Lo ha detto l’on Boldrini, lo dicono tutti: «La Ue non sia indifferente, salvare vite è la priorità».  Dichiarazione sacrosanta. Ma solo apparentemente. Sì, perchè noi, proprio noi, europei, italiani, siamo causa del problema.  Ed è scomodo dirlo, perciò un’informazione omologata, cassa di risonanza del potere non può farlo.  Cosicchè nei bollettini di morte e nelle discussioni parlare delle cause di questo sconvolgimento non ha diritto di asilo.
Non ci dicono da cosa fuggono.  La ‘svista’ è troppo clamorosa per pensare che sia casuale e non premeditata. La risposta ci coinvolge come responsabilità di quel male. La principale causa dell’esodo in corso è il caos e la miseria che gli USA e l’Europa hanno portato con la guerra in Libia, Siria, Iraq, Yemen, Somalia.
Qualche accenno in verità c’è, ogni tanto, da parte di qualche politico che ammette laconicamente: ‘è stato un errore la guerra di Libia’ e ‘ si deve trovare una soluzione alla crisi siriana’.  Ma è evidente che è ipocrisia allo stato puro, indegna per un paese (che si dice) libero, democratico, civile.
L’Italia sta ancora contribuendo ad alimentare direttamente o indirettamente  quelle guerre con le sanzioni che affamano il popolo siriano cosicchè alle sofferenze subite da ISIS e fratellanza varia , si aggiungono quelle inflitte dall’occidente.
Per l’Italia i terroristi sono ancora  ‘gli unici rappresentanti del popolo siriano’.  La sua posizione è immutata nonostante la realtà sia cambiata velocemente. Ed allora con una mano si salvano i profughi e con l’altra si creano le condizioni degli esodi di massa dei popoli.

Erano “siriani” i migranti morti asfissiati nel camion in Austria


Il problema sono le guerre che assediano l’Europa non i profughi. Se non si fermano le guerre non si fermano neppure i rifugiati. Le migrazioni da fenomeno di natura essenzialmente economica e sociale sono diventate qualche cosa d’altro, il risvolto inevitabile di questioni irrisolte e che si sono aggravate: dalla Siria all’Iraq e alla Libia, dallo Yemen all’Afghanistan, dal fallimento di Stati come la Somalia a dittature africane come quella in Eritrea.....
Alberto Negri, ilsole24ore:    http://www.siriapax.org/?p=20118

venerdì 14 novembre 2014

I Vescovi siriani e 'il gioco del domino mondiale'

Trattative per la tregua di Aleppo. Il Vescovo Abou Khazen: è utile solo se ci avvicina alla pace vera


Agenzia Fides 12/11/2014

Aleppo  – “Tra la popolazione di Aleppo c'è speranza, ma anche scetticismo davanti all'ipotesi di una tregua che faccia tacere le armi nella regione di Aleppo”: così il Vescovo Georges Abou Khazen OFM, Vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, descrive i sentimenti contrastanti tra gli abitanti della metropoli siriana davanti alle trattative messe in campo dall'Onu per raggiungere in quell'area un cessate il fuoco nel conflitto tra esercito siriano e milizie ribelli.
La possibilità che si arrivi alla fine delle violenze è ovviamente auspicata da tutta la popolazione civile. “Ma tutti - spiega all'Agenzia Fides il Vescovo francescano - desiderano che la tregua rappresenti solo il primo passo per instaurare un processo autentico di pace e di riconciliazione. 
In caso contrario, un cessate il fuoco provvisorio darebbe solo alle parti in lotta il tempo di riorganizzarsi, provare a infiltrarsi nei territori controllati dall'altra parte e riprendere la lotta con ancor più virulenza, come è già capitato altre volte. 
In questo senso - chiarisce il Vescovo Abou Khazen - le espressioni che parlano di 'congelamento' della situazione sul campo non convincono, e finiscono per alimentare scetticismo. La popolazione è esausta, non ce la fa più, vuole la pace vera e duratura. E spera che Aleppo possa fare da battistrada a un processo di pacificazione che si allarghi gradualmente a tutto il Paese”. 

La proposta di una tregua nell'area di Aleppo è portata avanti dall'inviato delle Nazioni Unite in Siria, Staffan de Mistura, che a tale scopo in questi giorni sta svolgendo una missione nel Paese arabo. 
Ieri, durante una conferenza stampa a Damasco, ha parlato di ''interesse costruttivo'' espresso dal governo siriano davanti all'ipotesi di un cessate il fuoco nella metropoli contesa tra esercito fedele a Assad e milizie ribelli.



L'Arcivescovo Hindo: se gli Usa attaccano l'esercito siriano, avremo una seconda Libia



Agenzia Fides 14/11/2014

Hassakè - “Se l'intervento a guida Usa contro i jihadisti dello Stato Islamico finirà per rivolgersi contro l'esercito siriano, in Siria potremmo avere una seconda Libia”. Così l'Arcivescovo Jacques Behnan Hindo, titolare dell'arcieparchia di Hassakè-Nisibi, descrive le incognite e i pericoli connessi ai possibili sviluppi delle iniziative militari a guida Usa realizzate anche in territorio siriano contro le postazioni dello Stato Islamico. 
In una conversazione con l'Agenzia Fides, l'Arcivescovo cattolico di rito orientale conferma che per ora le incursioni aeree dell'esercito siriano contro le postazioni dei jihadisti si sommano a quelle compiute contro gli stessi obiettivi dagli aerei Usa. 
Descrive poi, con toni preoccupati, la condizione incerta vissuta dalle popolazioni nella regione che comprende le città di Hassake e Qamishli, nella provincia siriana nord-orientale di Jazira.
 “Più di un mese fa - riferisce a Fides mons. Hindo - l'esercito siriano ha attaccato il quartiere di Hassakè dove si trovavano circa 250 militanti dello Stato Islamico, prendendone il controllo. Da allora, nei due centri abitati si vive una relativa calma. Ma le postazioni dei jihadisti sono solo a 15 chilometri da Hassakè e a una ventina da Qamishli. Se decidono di attaccare, magari coi rinforzi delle loro milizie cacciate dall'Iraq, una loro offensiva su larga scala metterebbe in pericolo la vita di quasi un milione di persone, tra cui 60mila curdi e 120mila cristiani”.
L'Arcivescovo Hindo ridimensiona anche le notizie circolate in rete su presunte “milizie cristiane” in azione nella regione: “si tratta solo di qualche centinaio di assiri, collegati in parte alle milizie curde e in parte alle truppe dell'esercito regolare. Ma è una piccola fazione che non può avere nessun peso determinante nel caso di un'escalation degli scontri armati”.



Siria: il gioco del domino mondiale e la variabile dei gruppi jihadisti

di Patrizio Ricci


Cosa conta veramente in Siria? La vita dei civili e la democrazia? La parola ai fatti, mai ascoltati. 

leggi su: La  Perfetta Letizia  : http://nblo.gs/11mj8F


Isis in Syria: In the shadow of death, a few thousand Christians remain to defy militants

Robert Fisk ,  Qamishli, Wednesday 12 November 2014


Micalessin: "In Siria massacrano i cristiani e Obama si affida a ribelli moderati che non esistono"

     leggi qui

http://notizie.tiscali.it/articoli/esteri/14/11/14/siria-crisi-intervista-gian-micalessin.html 

domenica 1 giugno 2014

La domanda dei siriani



In questi giorni i siriani sono accorsi in massa alle urne: reclamano non un partito o un uomo ma il proprio diritto di esistere.  Riaffermare la propria dignità ha avuto un caro prezzo: i ribelli in più di un'occasione hanno compiuto attentati  che hanno causato decine di vittime innocenti e centinaia di feriti.
Sarebbe semplice capire che esiste una sola via per la pace, perchè come ha detto il Papa " è un dono da accogliere con pazienza e costruire in modo artigianale” e  "non può essere comprata" .
Purtroppo, la risposta dell'occidente sembra sorda anche a questo appello: Obama ed i suoi alleati  hanno  intensificato l'aiuto alle milizie jihadiste.  E' ormai chiaro: non interessa neppure  'comprare la pace' ma conquistare il potere, con le armi e la devastazione.  
Patrizio Ricci 

A Homs prima Messa di ringraziamento per l'uscita dei ribelli dalla città... Ma contemporaneamente l'Occidente decide di raddoppiare l'aiuto ai ribelli....


La Perfetta Letizia, 20.5.14
di Patrizio Ricci 

Homs, come tutta la Siria, può vantare secoli di tradizione di tolleranza e amicizia tra i diversi popoli e le diverse religioni che ospita: è qui che i cristiani avevano la presenza più cospicua nel Paese. Dallo stesso luogo, all'inizio del 2012 sono stati scacciati. Ma non da Assad ma dai ribelli 'democratici'. Sotto le finte spoglie delle 'istanze' di miglioramento sociale e della democrazia si celava l'estremismo religioso; e prima che la società civile si rendesse conto dei veri obiettivi e reagisse, il focolaio si era già propagato trasformandosi in guerriglia urbana . Qualcuno ha seguito, altri sono rimasti a guardare, neutrali, ma diffidenti.

La distruzione era dietro l'angolo; quando la gente ha capito, era già troppo tardi: Homs è stata uno dei primi campi di battaglia scelti dai terroristi a libro paga delle petrol-monarchie del Golfo e sostenuta dagli 'amici della Siria'. Quest'ultimo è il gruppo di Stati che si è sovrapposto ad ogni iniziativa di pace dell'Onu trasformando il negoziato in una richiesta incondizionata al governo, quindi irricevibile. E' così proseguendo per questa china che, i due inviati (Kofi Anan e Brahimi), uno dopo l'altro, hanno rinunciato all'incarico... 


 Non è la prima vota in questo secolo che governi legittimi vengono rimossi perché ritenuti non corrispondenti o nocivi agli 'interessi d'area' delle grandi potenze mondiali. Agli attori di questi disegni globali non interessano i cambiamenti sociali ma realizzare affari e progetti politici proficui. Ciò su cui ci si dovrebbe interrogare è se esista al mondo qualcosa che possa giustificare il prezzo pagato dalla popolazione siriana. Il dramma più grande è che non c'è niente che valga questo prezzo e non c'è nulla che lo giustifichi. La morte di migliaia di siriani, il degrado miserabile della vita, lo scardinamento delle tradizioni, la negazione della libertà religiosa e democratica: tutto è stato venduto per una collana di perle finte, per un'impostura. La realtà attende di essere guardata! L'anima siriana, l'idea di stato e il senso di appartenenza nazionale, sentimento fortissimo tra i siriani, (e con esse le aspirazioni di riforme non violente) è tramontato con i primi califfati imposti dall'ISIS (lo Stato Islamico d’Iraq e Siria) e da al-Nusra (al-Qaeda) nelle zone da loro occupate del paese. Oggi, la vita grama dei campi profughi è conosciuta da 4 milioni di siriani, mentre il terrore della guerra è incombe su tutti. 
Il popolo fugge dalle roccaforti dell’opposizione: ad Aleppo orientale chi ha potuto si è spostato nella metà occidentale controllata dal governo; quelli nella fascia sud e sud-orientale di Quneitra si sono mossi verso il centro della regione e le zone orientali; quelli di Homs controllata dai ribelli e dell’area rurale di Hama, si erano trasferisti ad Hama City e a Salamiya in mano all’esercito regolare...

Ma torniamo ad Homs. I combattimenti hanno distrutto la maggior parte della città. I jihadisti hanno imposto la sharia ed hanno impedito agli abitanti dei quartieri di scappare, usandoli come scudo umano per rendere problematica la risposta dell'esercito. Dopo tre anni guerra la settimana scorsa la svolta: le milizie jadiste hanno lasciato la città per via di un accordo con il governo che ha previsto, come contropartita, uno scambio di prigionieri e l'incolumità.

Da allora, lentamente la gente torna a casa. Tutto o quasi è distrutto, ma si torna per i legami. Una delle foto a corredo di questo articolo mi ha molto impressionato: mostra l'immagine della prima messa di ringraziamento dopo la liberazione della città dai jihadisti. Cattolici e siro-ortodossi si sono ritrovati insieme a ringraziare Dio nella chiesa di Umma al-Zennar tra i detriti degli spari e dei combattimenti uniti nella celebrazione Eucaristica. 
 Invece che le mille utopie del mondo è quell'unità fraterna che cambia il mondo se il mondo ascolta e vede. La gente di Homs ricerca il vero, vuole la pace, vuole ricominciare e piangere i propri morti e ricostruire nella sicurezza. 

 Ma altrove emerge che la pace, per le istituzioni che dovrebbero preservarla, sembra essere il peggior nemico: ogni volta che si avvicina, esse diventano più attive nell' allontanarla. Paradossale che quasi nello stesso momento in cui ad Homs si celebrava la messa di ringraziamento, a Londra 'gli amici della Siria' si ritrovavano insieme (animati da un cinismo così pervicace da mutare la sostanza) per riacutizzare il conflitto. Quella che solo gli amici della Siria chiamano 'opposizione moderata' è una realtà numericamente irrilevante (l'80 per cento delle forze anti-Assad è costituito dalle brigate di Al-Qaeda e da varie formazioni facenti capo ai Fratelli Musulmani) ed alla pari delle milizie qaediste si è macchiata di gravi crimini contro la popolazione civile. Inoltre, la sua leadership condivide la stessa ideologia religiosa radicale dei jihadisti. 

Come se ciò non bastasse, il Summit inglese ha stabilito all'unanimità che le elezioni presidenziali siriane del 3 giugno sono una farsa. Come tutte le precedenti dichiarazioni, a supporto di questo pronunciamento ci sono solo ragioni di 'squadra', quelle di un club che agisce 'a prescindere', i cui membri sono legati ambiguamente da interessi reciproci 'molto materiali' e non dai nobili scopi tanto declamati. L'atteggiamento ostile non è stato mai abbandonato: accade che in prossimità di ogni negoziato rispuntano sempre nuovi capi di accusa per Assad; al tempo stesso gli attentati dei ribelli vengono deliberatamente ignorati. Così è accaduto ancora: l'accusa questa volta è che le truppe governative hanno usato il gas clorino. Il Segretario di stato USA Kerry ha detto che è un nuovo atto d'accusa a carico di Assad e che anche se "grezzo per la mancanza di tutti i riscontri, tutti gli indizi vanno verso unica direzione". Non ci vuole molta fantasia d indovinare quale, ma alla luce delle 'false flag' dei fatti di Ghouta l'anno scorso, la circostanza dovrebbe indurre ad usare maggiore prudenza. 


 Dunque, quelle siriane, presidenziali farsa. 
Per gli USA, ''l'unico e legittimo rappresentante del popolo siriano'' è invece Ahmed Jarba (il nuovo leader degli armati dell'esercito libero siriano), un siriano sconosciuto nel proprio paese con a carico precedenti penali per traffico di droga e l'accusa di tentato omicidio del ministro degli esteri qatariota Khalifa al-Thani (http://english.al-akhbar.com/node/16463). Difficilmente l'uomo risulterebbe gradito ai siriani: ma è gradito all'Arabia Saudita e agli Stati Uniti, ed è quanto basta. Le porte della buona società gli si sono spalancate: Jarba è andato a Washington, ha incontrato Barak Obama, poi è stato presentato al Senato degli Stati Uniti (dove Kerry ha garantito personalmente per lui). E' tornato a casa con un assegno di 287 milioni dollari per aiuti 'non letali' per le sue 'forze di opposizione' (la cifra 'donata finora dagli USA ai ribelli è di $ 1,7 miliardi). 
 E l'Italia? Il nostro paese, in una situazione di evidente cospirazione internazionale ai danni di un paese sovrano, è ancora tra gli 'amici della Siria' e finora ha appoggiato tutte le decisioni palesemente contraddittorie che ivi si sono prese, in netta contrapposizione con il nostro dettato costituzionale. 

http://www.laperfettaletizia.com/2014/05/ad-homs-prima-messa-di-ringraziamento.html