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sabato 2 marzo 2024

I Patriarchi e capi delle Chiese di Gerusalemme rilasciano una dichiarazione sui recenti attacchi contro la folla radunata per ricevere aiuti umanitari

 

Patriarcato Latino di Gerusalemme, 1 marzo 2024

Nelle prime ore del mattino di giovedì 29 febbraio, secondo testimonianze oculari, le forze israeliane nel sud-ovest della città di Gaza hanno aperto il fuoco su folle di civili che cercavano di ricevere sacchi di farina per sfamare le loro famiglie affamate. La carneficina che ne è seguita ha causato la morte di più di cento gazawi e altre centinaia di feriti gravi. I medici presenti sul posto e gli ospedali ricoveranti hanno riferito che la maggior parte di loro è stata uccisa o ferita da colpi di arma da fuoco, mentre alcuni sono stati vittime dopo essere stati calpestati dalla folla in preda al panico o colpiti dai camion dei soccorsi che fuggivano dalla orribile scena. 

Sebbene i portavoce del governo abbiano inizialmente cercato di negare il coinvolgimento dei soldati in questo incidente, il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano non solo ha elogiato i combattenti dell'IDF per aver agito in modo "eccellente", ma ha anche tentato di incolpare le vittime della loro stessa fine, accusandole di aver cercato di fare del male a soldati pesantemente armati. Ha poi attaccato la consegna di aiuti umanitari a Gaza, sostenendo che dovrebbe cessare. 

Questo desiderio dichiarato è già diventato una dura realtà per il mezzo milione di persone rimaste a Gaza Città, dove le consegne di aiuti si sono quasi fermate a causa delle pesanti restrizioni all'ingresso e della mancanza di scorta di sicurezza per i convogli.

I funzionari umanitari hanno avvertito così spesso della carestia indotta dall'assedio nel nord di Gaza che i governi stranieri di buona volontà sono stati costretti come ultima risorsa a condurre lanci aerei umanitari. Tuttavia, questi offrono solo una minima parte del soccorso necessario per una popolazione civile residua superiore a quella di Tel Aviv, la seconda più grande città di Israele. 

All'indomani degli orribili eventi di ieri e del loro crudele contesto, Noi, i Patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme, condanniamo questo attacco sconsiderato contro civili innocenti e chiediamo che le parti in guerra raggiungano un cessate il fuoco immediato e prolungato che consenta la rapida distribuzione dei soccorsi in tutta la Striscia di Gaza e l'attuazione di un rilascio negoziato di coloro che sono detenuti come prigionieri e prigioniere. 

Nell'esprimere queste suppliche a nome di tutti gli innocenti che soffrono a causa della guerra, noi trasmettiamo le nostre speciali preghiere di sostegno alle comunità cristiane di Gaza sotto la nostra cura pastorale. Tra queste, gli oltre 800 cristiani che si sono rifugiati nelle chiese di San Porfirio e della Sacra Famiglia a Gaza City da quasi cinque mesi. Allo stesso modo estendiamo le stesse espressioni di solidarietà all'intrepido personale e ai volontari dell'Ospedale Ahli, gestito dagli anglicani, e ai pazienti che servono. 

Nel lanciare questo appello, la nostra speranza finale è che la fine delle ostilità, il rilascio dei prigionieri e la cura degli oppressi aprano un orizzonte per serie discussioni diplomatiche che portino finalmente a una soluzione giusta e duratura qui nella terra in cui nostro Signore Gesù Cristo ha preso per primo la sua croce in nostro favore. Possa Dio concedere a tutti noi la sua grazia mentre cerchiamo di realizzare questa visione pasquale piena di speranza.

I Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme

https://lpj.org/en/news/hoc-statement-on-the-recent-attack-on-crowds-gathering-to-receive

lunedì 16 maggio 2022

Dichiarazione dei Patriarchi di Gerusalemme sulle violenze israeliane durante il funerale di Shireen Abu Aqleh


Noi, il Patriarca greco di Gerusalemme, il Patriarca latino di Gerusalemme, i Vescovi e i fedeli delle Chiese cristiane in Terra Santa, condanniamo la violenta intrusione della polizia israeliana nel corteo funebre della giornalista uccisa Shireen Abu Akleh, mentre si recava dall'ospedale San Giuseppe alla chiesa cattedrale greco-melchita.

La Polizia ha fatto irruzione in un istituto sanitario cristiano, mancando di rispetto alla Chiesa, all'istituto sanitario, alla memoria del defunto e costringendo i portatori della bara a lasciarla quasi cadere.

L'invasione e l'uso sproporzionato della forza da parte della polizia israeliana, che ha attaccato i fedeli in lutto, li ha colpiti con manganelli, ha usato granate fumogene, ha sparato proiettili di gomma, ha spaventato i pazienti dell'ospedale; è stata una grave violazione delle norme e dei regolamenti internazionali, compreso il diritto umano fondamentale della libertà di religione, che deve essere osservato anche in uno spazio pubblico.

L'Ospedale St. Joseph è sempre stato orgogliosamente un luogo di incontro e di guarigione per tutti, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o culturale, e intende continuare a esserlo. Quanto accaduto venerdì scorso ha ferito profondamente non solo la comunità cristiana, le Suore di San Giuseppe dell'Apparizione, proprietarie dell'Ospedale, e tutto il personale ospedaliero, ma anche tutte le persone che in quel luogo hanno trovato e trovano tuttora pace e ospitalità.

Le Suore e il personale dell'Ospedale San Giuseppe hanno sempre fatto sì che il loro Istituto fosse un luogo di cura e di guarigione e il deplorevole episodio di venerdì scorso rende questo impegno ancora più forte che mai.

Gerusalemme, Ospedale San Giuseppe, 16 maggio 2022

venerdì 13 maggio 2022

Dichiarazione del Patriarcato latino di Gerusalemme sulla morte di Shereen Abu Aqleh

 
The Latin Patriarchate of Jerusalem expresses its shock at the death of the Palestinian reporter Shereen Abu Aqleh who, according to eyewitnesses, has been killed by the Israeli army, during coverage of the Israeli army’s storming of Jenin camp on Wednesday morning, May 11, 2022.

We ask for a thorough and urgent investigation of all the circumstances of her killing and for bringing those responsible to justice.

This blatant tragedy brings back to human conscience the need to find a just solution to the Palestinian conflict, which refuses to enter oblivion although 74 years have passed since the Nakba.

We pray for the rest of Shereen's soul, who was an example of duty and a strong voice for her people, and ask God to grant her brother and relatives the consolation of faith. We pray that the Palestinian people find their way to freedom and peace.

We pray for the recovery of journalist Ali Samouri, who was also injured while performing his duty, and for all journalists in the world who courageously perform their work.

Le Patriarcat latin de Jérusalem exprime sa consternation face à la mort de la journaliste palestinienne Shereen Abu Aqleh qui, selon des témoins oculaires, a été tuée par l'armée israélienne alors qu'elle couvrait une offensive israélienne au sein du camp de Jénine, le matin du 11 mai 2022.

Nous demandons une enquête approfondie et urgente sur toutes les circonstances de ce meurtre et que les responsables soient traduits en justice.

Cette tragédie flagrante ramène à la conscience humaine la nécessité de trouver une solution juste au conflit palestinien, qui refuse de tomber dans l'oubli bien que 74 ans se soient écoulés depuis la Nakba.

Nous prions pour le repos de l'âme de Shereen, qui était un exemple de devoir et une voix forte pour son peuple, et demandons à Dieu d'accorder à son frère et à ses proches la consolation de la foi. Nous prions pour que le peuple palestinien trouve son chemin vers la liberté et la paix.

Nous prions aussi pour le rétablissement du journaliste Ali Samouri, également blessé dans l'exercice de ses fonctions, et pour tous les journalistes du monde qui accomplissent courageusement leur travail.

https://www.lpj.org/it/posts/dichiarazione-del-patriarcato-latino-di-gerusalemme-sulla-morte-di-shereen-abu-aqleh.html




lunedì 6 agosto 2018

Consiglio dei patriarchi cattolici d’Oriente: I cristiani d’Oriente oggi, timori e speranze (Testo completo)

«In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). È il titolo dell’undicesima lettera pastorale del Consiglio dei patriarchi cattolici d’Oriente (CPCO), pubblicata il 20 maggio 2018, elaborata durante la riunione tenutasi dal 9 all’11 agosto 2017 nei pressi di Beirut, in Libano. In quell’occasione i patriarchi cattolici d’Oriente hanno riflettuto sulla situazione umana, sociale e politica dei paesi del Medio Oriente, poiché «nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità» a causa di guerre, terrorismo, povertà, emigrazione dei cristiani. 

La lettera si rivolge ai fedeli delle Chiese cattoliche d’Oriente, ma anche ai concittadini delle altre religioni, ai governanti e ai leader occidentali


dal sito del Patriarcato latino di Gerusalemme 


Introduzione
Ai nostri fratelli vescovi, preti, diaconi, religiosi e religiose e a tutti i nostri diletti fedeli, in tutte le nostre eparchie, in Oriente e nei paesi di emigrazione, «grazie a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!» (1Cor 1,3).

1. Vi scriviamo questa lettera nella festa di Pentecoste, dopo aver celebrato la Pasqua gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo e la sua vittoria sulla morte e sul male. Abbiamo bisogno, infatti, di contemplare Cristo risorto e di chiedere allo Spirito Santo di colmarci della sua forza e di rinnovare la nostra fede, in questo tempo nel quale ci vediamo sommersi dal male della guerra e della morte in tutta la regione.
 In molti dei nostri paesi vediamo morte e distruzione, a causa di una politica mondiale, economica e strategica, mirante a creare un «nuovo Medio Oriente».
Tutti, cristiani e musulmani, veniamo uccisi o costretti a emigrare, in Iraq, Siria, Palestina e Libia. Nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità.
 Oggi molti parlano della nostra estinzione o della riduzione drammatica del numero dei nostri fedeli. Noi continuiamo a credere in Dio, Signore della storia, che veglia su di noi e sulla sua Chiesa in Oriente. Continuiamo a credere nel Cristo risorto e nella sua vittoria sul male. In Oriente resteranno sempre dei cristiani che proclameranno il Vangelo di Gesù Cristo, testimoni della sua risurrezione, anche se rimarremo solo un piccolo gruppo. Resteremo «sale, luce e lievito» (cf. Mt 5,13.14; 13,33), come ci ha detto il Signore Gesù Cristo, il quale ci aveva anche preannunciato: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio; io ho vinto il mondo!… Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 16,33; 14,27).

2. Fratelli e sorelle, vi inviamo questa lettera, dopo il nostro incontro annuale alla residenza patriarcale di Dimane (Libano), dal 9 all’11 agosto 2017, dove siamo stati ospiti del nostro fratello, il patriarca card. Bechara Boutros Raï. La indirizziamo a voi, nostri fedeli, ai nostri paesi, a tutti i nostri concittadini cristiani, musulmani e drusi, ai nostri governi e anche ai responsabili politici in Occidente, che hanno deciso di creare un nuovo Medio Oriente e pensano di avere il diritto di decidere dei nostri destini, grazie alle loro potenze materiali o militari.
  In questa lettera rivolgiamo tre messaggi: il primo ai nostri fedeli; il secondo ai nostri concittadini e ai governanti dei nostri paesi; il terzo a coloro che in Occidente decidono della politica del Medio Oriente e a Israele

Capitolo 1: Messaggio ai nostri fedeli

Tempi difficili
3. Sappiamo che è difficile rivolgere una parola ai nostri fedeli che hanno subito molteplici prove, hanno pianto la morte dei loro cari e vicini o sono stati dispersi nel mondo. Davanti a tanta sofferenza, la parola più eloquente è il silenzio. Silenzio anche davanti al mistero di Dio e del suo amore per tutte le sue creature, un mistero che noi non riusciamo a comprendere, con tutto il male che ci invade.
Silenzio e rispetto di fronte alle prove subite dai nostri fedeli; insieme a loro facciamo nostro il grido del salmista: «Fino a quando, Signore?». «Signore, Dio, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato» (Sal 6,4; 80,15-16a).
Silenzio, preghiera, e abbandono e sottomissione alla volontà di Dio. Ringraziamo al tempo stesso Dio per ogni cosa, per la sua Provvidenza che veglia sulla Chiesa d’Oriente, su ogni persona che è in mezzo a noi e sul mondo intero.
  Circondati dal sangue e dalla distruzione, dispersi nel mondo, noi meditiamo le parole di Cristo, il quale ci ha preannunciato difficoltà e persecuzioni: «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). E ancora: «… e sarete condotti davanti a governatori e re, per causa mia» (Mt 10,18). Ma ci ha detto anche che lo Spirito sarà con noi: «Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12).
Questa è la nostra situazione, come quella del salmista che afferma: «Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (Sal 44,23; cf. anche Rm 8,36) e come quella di Paolo, che scrive: «Ogni giorno io vado incontro alla morte» (1Cor 15,31). Ma l’apostolo ci rivolge anche una parola di incoraggiamento: «In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). Ispirati da queste parole della Scrittura, noi definiamo i nostri comportamenti umani, nelle nostre Chiese e nei nostri paesi. E in mezzo alle difficoltà, sempre con il salmista, rinnoviamo la nostra fede: «Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice» (Sal 116,10).
Noi crediamo, pur sapendo che è difficile credere mentre siamo sommersi dalle tenebre e dalle ingiustizie di questo mondo.
  Vediamo la terra piena di miserie. Vediamo la crudeltà degli uomini, gli uni verso gli altri e verso di noi. Sperimentiamo un tempo di morte e di martirio. Davanti a tutto questo, noi guardiamo la bontà di Dio, gli chiediamo la forza e la capacità di accogliere la sua grazia. Gli chiediamo di accompagnarci nell’ora del martirio quando giungerà. Gli chiediamo di accompagnarci, se restiamo nelle nostre case, se le nostre Chiese sono distrutte e se siamo dispersi nel mondo. Gli chiediamo la forza di restare saldi nella nostra fede e nella nostra fiducia nella sua bontà. Nonostante la morte che ci minaccia, noi crediamo che Dio non cessi d’inviarci nei nostri paesi o nel mondo portando dentro di noi una briciola della sua bontà divina, della sua forza e del suo amore per tutto il mondo.

Emigrazione
4. In alcuni dei nostri paesi assistiamo all’emigrazione forzata di nostri fedeli a causa delle prove disumane che hanno conosciuto. Ringraziamo i paesi, le Chiese, le organizzazioni assistenziali internazionali che hanno accolto i nostri fedeli e hanno offerto loro l’aiuto necessario per assicurare loro una vita umana degna. Ma ripetiamo a tutti, soprattutto ai politici, che il miglior aiuto da dare ai nostri fedeli è quello di permettere loro di restare a casa loro, nei loro paesi, di non suscitare disordini politici e le varie forme di violenza che li costringono a emigrare.
  C’è anche un’emigrazione di cristiani in altri paesi, nei quali la situazione è relativamente tranquilla, ma che ugualmente risentono del clima di guerra e d’instabilità politica generale nella regione. Noi ripetiamo a tutti i nostri fedeli l’importanza della presenza cristiana in Oriente e della presenza di ognuno e ognuna di voi nei vostri paesi dove Dio vi ha chiamati e vi ha inviati. In tempi difficili, i vostri paesi e le vostre Chiese hanno bisogno di voi. Vi diciamo di resistere per quanto potete alla tentazione dell’emigrazione e di continuare a vivere la vostra missione nei vostri paesi e nelle vostre Chiese. L’avvenire delle nostre Chiese e della presenza cristiana in generale nella regione dipende anche dalla vostra decisione di partire o di accettare la volontà di Dio restando là dove vi ha chiamati.

I nostri martiri
5. Dai nostri morti, dai nostri martiri e dalla crudeltà degli uomini nei nostri confronti noi impariamo due cose. Anzitutto restiamo dei messaggeri portatori di vita nei nostri paesi e nelle nostre società. In secondo luogo, se la morte è una realtà, per il credente anche la vita è una realtà ed essa finirà per trionfare sulla morte. La vita piena, la «vita in abbondanza» (Gv 10,10) che Cristo è venuto a offrirci e ci permette di comunicare agli altri. Nelle molteplici difficoltà, i nostri corpi vengono uccisi, ma il messaggio rimane. Noi restiamo portatori di un messaggio, qui e sulle strade del mondo. Qui contribuiamo alla costruzione delle nostre società, e sulle strade del mondo, là dove giungiamo, portiamo il Vangelo di Gesù Cristo.
  Noi non disperiamo, non fuggiamo lontano da un mondo nel quale regna la morte. Anche coloro che uccidono hanno bisogno di sale e di luce, per riuscire ad aprire gli occhi e uscire dalla loro cecità e dalla loro disumanità. Noi non fuggiamo davanti a coloro che uccidono nelle nostre società o nel mondo. Cerchiamo piuttosto di ricondurli alla vita, perché uccidendoci uccidono sé stessi. La missione delle nostre Chiese, e di tutti i nostri fedeli, è una missione difficile, sanguinosa. Essa consiste nel rendere la vita a una generazione di morti, nel rendere la bontà di Dio a coloro che se ne sono privati, nel rendere la vista a coloro che l’hanno perduta e sono diventati incapaci di vedere l’amore di Dio e dei figli di Dio.

Che cosa ci dicono i nostri martiri?
6. I nostri martiri dicono a noi cristiani una parola di verità. Dio ha voluto che noi ricevessimo in questo XXI secolo il battesimo del sangue.
 I nostri martiri ci dicono di rinnovare il nostro amore gli uni verso gli altri, anche se siamo ancora separati da strutture esterne che si sono formate nel corso dei secoli. Anche se continuano le nostre differenze nel modo di comprendere ed esprimere la fede nell’unico Signore Gesù Cristo. Un solo amore nelle nostre Chiese, una sola voce per il povero, per l’oppresso e per la pace, uno stesso impegno nelle nostre società, nelle quali il Signore ci ha posti e ci ha mandati per costruirle e per avviarvi una nuova fase della nostra storia. Il nostro contributo alle nostre società consiste nel rendervi più presente Dio e nell’introdurvi più amore e pace.
 I nostri martiri hanno dato la loro vita per Gesù Cristo e per la vita delle nostre Chiese e dei nostri paesi. Perciò le nostre Chiese elevano insieme la loro lode all’unico Signore Gesù Cristo e avanzano verso una maggiore unità fra di noi e nelle nostre società. Essendo state battezzate nel sangue dei nostri martiri, le nostre Chiese hanno il dovere di rinnovarsi per diventare fonte di vita per tutti.
 I nostri martiri ci dicono di rinnovare la nostra preghiera, affinché sia al tempo stesso culto reso a Dio e amore del prossimo, amore delle persone più vicine e anche di quelle più lontane, amore di tutte le nostre comunità e di tutte le nostre società. La nostra preghiera non resterà fra le mura delle nostre Chiese, ma si estenderà a tutte le nostre relazioni reciproche e alle nostre società. La nostra preghiera si estenderà a tutti i bisogni materiali e spirituali di tutti. Questo implica anche un rinnovamento delle nostre tradizioni, delle nostre liturgie e delle nostre devozioni, affinché diventino un nutrimento che trasforma la nostra vita quotidiana e ci aiuta ad assolvere la nostra missione nel mondo.
 Il sangue dei nostri martiri è un seme per un rinnovamento delle nostre Chiese, dei nostri fedeli, dei nostri sacerdoti, vescovi e patriarchi. Anche se la strada aperta dal sangue dei nostri martiri è lunga e difficile, noi la percorriamo. Camminiamo insieme a loro, con lo sguardo fisso al cielo, ricordandoci della nostra vera vocazione, come cristiani e come esseri umani creati a immagine di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Anche la strada della perfezione è lunga e difficile. Perciò, mentre avanziamo sulla strada della perfezione, i nostri martiri ci dicono anche di saperci preparare al battesimo del sangue.
 Ai loro persecutori, ai loro assassini vicini o lontani, a viso scoperto o nascosto, i nostri martiri dicono: anche per voi noi abbiamo dato la nostra vita, affinché anche voi possiate vedere Dio e i figli di Dio, vedere Dio in ogni essere umano, sia che appartenga alla vostra religione, sia a un’altra. Aprite i vostri occhi e i vostri cuori alla vita. Ritrovate la vostra libertà, non restate contemporaneamente assassini e vittime del vostro male. Non restate persecutori dei vostri fratelli e schiavi del male che c’è in voi.
 Il sangue dei nostri martiri annuncia una vita nuova, la nascita di un uomo arabo nuovo, cristiano, musulmano e druso. Essi sono morti per la gloria di Dio e sono diventati una benedizione per le loro Chiese e le loro società arabe. Il numero dei cristiani diminuisce, ma il sangue dei martiri è seme di vita e di grazia. Il numero dei cristiani diminuisce, ma la grazia sovrabbonda.
 In mezzo alle difficoltà e alla morte, noi ricordiamo sempre la bontà e la misericordia di Dio. Lo ricordiamo a coloro che ci uccidono, perché anch’essi, nonostante tutto il male che c’è in loro, hanno qualcosa della bontà di Dio. Anch’essi possono amare. Dio non ha creato l’uomo per la morte, per la sua morte o per quella degli altri. Lo ha creato per essere fratello e sorella di tutti e di tutte, quali che siano e a qualunque religione appartengano. Creati a sua immagine, noi siamo in grado di vivere e di amare come lui.

Capitolo 2: Che cosa diciamo ai nostri concittadini e ai nostri governanti?

La nostra realtà
7. La nostra realtà è caratterizzata da un lato da prosperità, ricchezza, grandi edifici e una parvenza di pace, con molto benessere, molta religione, molta scienza e molto denaro; dall’altro da molta povertà e, in alcuni dei nostri paesi, molti senzatetto. Nel campo della religione, per molti i nostri metodi di educazione religiosa sono un terreno fertile per l’estremismo o il confessionalismo chiuso e settario. Sul terreno, come nelle anime, domina una situazione di guerra e di sedizione. In alcuni dei nostri regimi politici si ha paura della libertà delle persone. I nostri paesi sono in cammino verso una stabilità non ancora realizzata. Dall’esterno e dall’interno ci sono state imposte delle guerre. E il nostro futuro rimane ignoto.

I nostri capi politici
8. Ringraziamo i nostri capi politici per i loro sforzi a servizio dei nostri popoli. Ma ricordiamo loro anche ciò che abbiamo detto sopra. La strada che ci separa dalla «città virtuosa» resta ancora lunga. Continuiamo a soffrire per la povertà, la corruzione, la limitazione delle libertà, il confessionalismo e le guerre. Tutto questo dovrebbe essere già stato superato.
 Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà e della complessità della situazione. Ma nonostante le difficoltà e la complessità, il male e la corruzione devono cessare. E questo è possibile. Il governo è un servizio reso alla comunità ed esige uno sforzo per migliorare le sue condizioni di vita. Il suo scopo è quello di assicurare a ogni cittadino una vita degna e libera, a livello sia materiale, sia spirituale, sia sul piano delle libertà. Siamo in grado di raggiungere tutto questo. Ma ne siamo ancora molto lontani.

Distacco e bene comune
9. I veri capi sono disinteressati. Sono servitori, cercano il bene delle persone e delle comunità. Paolo dice di se stesso: «Io non cerco il mio interesse, ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1Cor 10,33). Con le sue parole, egli esortava i suoi fedeli a «imitare Dio». È bene e anche necessario che i capi politici ascoltino questa parola: non cercare il loro interesse personale, ma quello degli altri. È necessario che chi governa cerchi l’interesse del popolo dal quale ha ricevuto il mandato di governarlo. L’autorità è un servizio per l’edificazione della comunità.
 Noi diciamo alle nostre autorità: ascoltate la voce dei poveri. Un buon governante è quello che sradica la povertà. Nelle nostre società vi sono grandi fortune; ci sono anche le conoscenze e la capacità organizzativa. Nelle nostre società, nelle quali si trovano tante risorse e ricchezze, la povertà è un segno della noncuranza o dell’incapacità dell’autorità. La povertà esiste quando un fratello non vede il proprio fratello. Essa è la conseguenza inevitabile di un governante che cerca il proprio interesse e non quello della comunità.
 Perché nei nostri paesi ricchi di risorse esiste ancora la povertà? Dipende da una nostra mancanza di «umanità»? Dipende dall’egoismo e dall’incapacità dei nostri ricchi o dei nostri capi politici di uscire dal loro ego per pensare agli altri?
 O forse la religione, nonostante la sua onnipresenza, è in realtà assente? Infatti tutto l’Oriente, cristiano o musulmano o druso, è religioso, o diciamo piuttosto saldamente legato alla sua comunità religiosa. La religione è presente, ma spesso Dio non è presente. Può capitare, infatti, che nonostante la fedeltà alle pratiche rituali religiose Dio sia assente. Si è religiosi, si va in chiesa o in moschea, ma si trascura il povero che è creatura e figlio di Dio. Le elemosine sono certamente frequenti. Alcuni costruiscono anche una chiesa o una moschea. I nostri paesi e le nostre società, dove esistono molte ricchezze e molti poveri al tempo stesso, hanno bisogno di ben più di questo. Non hanno bisogno solo di elemosine, ma di giustizia sociale, di un’economia giusta che assicuri la dignità umana a ognuno.
 La povertà nei nostri paesi ricorda a tutti coloro che hanno grandi patrimoni, ai governanti, ai responsabili dell’economia, che i nostri paesi hanno bisogno di qualcosa che va al di là dell’«elemosina». Hanno bisogno di sistemi e di piani economici in grado di distribuire e organizzare le ricchezze della nazione, e anche degli individui, affinché nessun abitante resti nel bisogno. La religione è molto presente, ma dobbiamo rendere presente Dio stesso, Dio misericordioso, il quale ci dice di aver dato a tutti la stessa dignità umana. Questo esige una migliore comprensione della religione. Questo esige capi che sappiano essere servitori, che lavorino per gli altri e assicurino una vita degna a ogni cittadino. E nessuno dica che le cose sono difficili e complicate. I responsabili facciano piuttosto uno sforzo per vedere e riconoscere che esistono intenzioni francamente cattive e mancanza di buona volontà per realizzare la giustizia sociale.
 Questa questione della povertà riguarda anche le nostre Chiese, ossia tutti noi, in primo luogo pastori, vescovi, preti, religiosi e religiose. Infatti noi possiamo attivarci per reclamare e realizzare una migliore giustizia sociale. E possiamo anche dare l’esempio nel nostro modo di possedere e usare le ricchezze di questo mondo. I poveri presenti nelle nostre società ci invitano tutti, responsabili religiosi e politici, a fare un esame di coscienza sul nostro atteggiamento verso il denaro e sulla nostra azione o noncuranza di fronte al grido del povero.

La libertà
10. Ascoltate la voce degli oppressi che sono stati privati della loro libertà. «Amate la giustizia, voi giudici della terra» (Sap 1,1). Le autorità politiche hanno il dovere di formare un governo forte e garantire a tutti la sicurezza e la tranquillità. Ma non è permesso al governo, qualunque sia il regime, di diventare dittatura e tirannia. Non è permesso di umiliare la persona umana o di ucciderla in forza della sua libertà, la quale ha certamente i suoi limiti, che sono il bene delle persone e delle comunità.
 Il buon governante non teme la libertà e neppure l’opposizione. Al contrario, si basa su di esse e le prende come guida per assicurare meglio il bene comune.
È certamente difficile rispettare pienamente la libertà umana. Ma chi ha accettato di governare deve essere in grado di affrontare ogni difficoltà, senza cadere nelle ingiustizie. Deve sapere come trattare la libertà delle persone senza opprimerle.   Un buon governante si dimostra tale proprio attraverso la sua capacità di trattare la libertà delle persone e dei gruppi, fra cui i partiti politici e tutti coloro che si oppongono a lui con le loro idee. Non ha diritto di gettare in prigione gli intellettuali e le persone libere del popolo per il solo fatto di appartenere all’opposizione. Anche nelle prigioni, deve essere rispettata la dignità della persona umana. Non si possono correggere le differenze di opinione attraverso l’annientamento della persona umana, soggetta unicamente a Dio e non alla tirannia di un dittatore.

Di fronte alla politica mondiale
11. Vogliamo dei leader politici indipendenti dalle pressioni e dai piani esterni. Sappiamo che esistono molte pressioni di ogni sorta, che costituiscono fardelli pesanti da portare, limitano la libertà dei governanti e vanno contro il bene dei loro popoli.
 Perciò abbiamo bisogno di leader politici forti. Ed è nel popolo che essi troveranno la loro forza, ma solo se ne sapranno rispettare la libertà e la dignità. Sostenuti dal loro popolo, i capi possono far fronte a tutte le pressioni esterne mondiali e alle grandi potenze che pretendono di cambiare a loro piacimento il nostro Medio Oriente.
 Abbiamo bisogno di leader che, sostenuti dal loro popolo, siano in grado di tener testa ai potenti di questo mondo e di trattare con loro alla pari; essi non temeranno alcuna minaccia militare o economica.
 Un popolo rispettato dai suoi leader è la loro forza e la fonte della loro libertà di decisione di fronte a ogni aggressione dall’esterno e di fronte a ogni tentativo di distruzione o di sedizione e di guerre civili, come abbiamo visto e come vediamo ancora nei nostri diversi paesi.
 La regione ha bisogno di leader che siano artefici di pace per il loro paese e per i paesi vicini. Essi rifiutano ogni incitamento alla guerra che proviene loro dall’esterno, nonché le alleanze contro il bene dei loro popoli o dei paesi vicini. Vogliamo capi liberi, con le mani pulite, che possano far uscire la regione dalle sue molteplici guerre e stabilirvi una pace stabile e definitiva.

Lo stato laico
12. Noi ci aspettiamo dai nostri capi che costruiscano uno stato laico, basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, senza discriminazione sulla base della religione o di qualsiasi altra ragione. Uno stato nel quale ogni cittadino si senta a casa propria, uguale a tutti gli altri e con le stesse opportunità di vita, governo o lavoro, indipendentemente dalla sua religione. Tutti si sentiranno fratelli nella stessa patria, con gli stessi doveri e gli stessi diritti.
 Lo stato laico separa religione e stato, ma rispetta tutte le religioni e le libertà. Si sforza di comprendere meglio la questione religiosa nei nostri paesi, con le sue componenti, cristianesimo, islam e comunità druse, senza lasciare che si trasformino in confessionalismo religioso o politico. Questo richiede due cose: anzitutto noi, cristiani e musulmani e drusi, dobbiamo imparare come vivere insieme, come creare insieme lo stato moderno; e in secondo luogo dobbiamo apprendere come formare le nostre generazioni attraverso una nuova educazione basata sugli stessi principi: rispetto reciproco, collaborazione e destino comune, nel paese nel quale Dio ci ha mandati.
 Per questo vogliamo leader politici che abbiano il coraggio d’intraprendere una nuova educazione alla vita politica, alla formazione della persona umana e di un nuovo cittadino. Vogliamo un’autorità che formi persone che tendono al proprio perfezionamento e a quello dei loro fratelli e di tutta la patria. Cittadini e credenti che non sono chiusi in sé stessi, ma sono aperti e capaci di abbracciare tutti i loro fratelli e sorelle e il mondo intero.

I capi religiosi
13. Noi vogliamo capi religiosi che abbiano visioni nuove, capi religiosi cristiani, musulmani e drusi uniti dalla fede in Dio uno e unico, misericordioso, amico degli uomini. Capi che collaborino e si sforzino di formare dei credenti che si amano gli uni gli altri, quale che sia la rispettiva religione.
 Condanniamo le guerre religiose del passato, le lasciamo alla storia e per esse chiediamo perdono a Dio. Gli chiediamo d’illuminarci per configurare insieme la nostra nuova storia e di darci la forza di camminare nella sua luce e nella sua misericordia, affinché la religione resti, a immagine di Dio stesso, una religione di amore e di misericordia per tutte le sue creature.
 Nella nostra realtà quotidiana esistono dialogo e accettazione reciproca. Ma esiste anche il contrario. Continuano a esistere correnti religiose contrarie alla collaborazione e all’uguaglianza fra i credenti di religioni diverse. C’è un rifiuto dello stato laico e dell’uguaglianza dei cittadini. Nel cuore di molte persone si trovano ancora l’estremismo religioso e l’esclusione. Le nostre ferite in Iraq e in Siria sono ancora aperte. Gli attacchi contro le chiese in Egitto continuano a ripetersi. Esistono ancora fra noi fanatismi religiosi che separano i credenti in nome di Dio, che è uno e unico e ama tutte le sue creature indipendentemente dalla religione alla quale appartengono. Vi sono anche quelli che uccidono in nome di Dio.
 Nei cuori di alcuni cristiani si è formata anche una reazione di carattere confessionale, che non è cristiana ed evidenzia un sentimento di disperazione e di rifiuto dell’altro.
 Di fronte a queste realtà noi ci fermiamo, riflettiamo e ci facciamo un esame di coscienza per ridefinire insieme i nostri atteggiamenti e rinnovare la nostra fede in Dio, che è amore e misericordia. Rinnoviamo il nostro amore per Dio e gli uni per gli altri. Decidiamo di cambiare i vecchi comportamenti che dividono e li sostituiamo con l’amicizia e il rispetto reciproco.
 Anche i capi religiosi sono «servitori» degli altri e non di loro stessi. Essi camminano e guidano i credenti nelle vie di Dio, ossia l’amore e la misericordia. Hanno la responsabilità della formazione di persone umane nuove, forti, misericordiose, amanti di ogni uomo, di ogni religione. Possono formare una generazione di credenti che danno la vita e non la morte; possono formare credenti sinceri, misericordiosi e non omicidi.
 L’amore del capo religioso abbraccia certamente i credenti della sua comunità, ma si spinge oltre, perché l’amore non ha confini, è universale come l’amore che Dio ha per tutta la sua creazione. Il nostro Medio Oriente, saturo di sangue e di morte, ha bisogno di capi religiosi che lo guidino nelle vie della vita. Abbiamo bisogno anche di capi religiosi che abbiano il coraggio di resistere a tutte le forze di discriminazione e di morte, che ancora operano nelle nostre società, sia che provengano da noi stessi sia che provengano dall’esterno o da correnti che hanno un grande potere di distruzione.
 Abbiamo bisogno di capi religiosi in grado di compatire le sofferenze di tutti, di portarle in loro stessi e di insegnare che le sofferenze non sono per la morte, ma sono una strada verso una vita nuova, sull’esempio della croce di nostro Signore Gesù Cristo, che fu un percorso dalla morte alla risurrezione. Tutta la vita umana ha un carattere pasquale; essa è un continuo passaggio da ogni forma di morte alla vita; è una continua vittoria sul peccato e sul male fino a giungere alla vita nuova.
 I capi religiosi devono lasciare allo stato la sua indipendenza nel suo ambito. Devono insegnare e richiamare i grandi principi della morale. Attraverso il loro insegnamento devono sostenere lo stato in ogni azione giusta che conduce a una vita degna e tranquilla della comunità. Devono alzare la voce per difendere i poveri, gli oppressi. Devono andare in cerca di tutte le persone oppresse o bisognose per rendere loro giustizia e assicurare loro una vita degna. Devono difendere la libertà e insegnare al tempo stesso ai credenti come usare la loro libertà non per discriminare, non per arrecare pregiudizio alla società e opprimere, ma per costruire insieme.

Una nuova educazione
14. Quanto siamo venuti dicendo dimostra che abbiamo bisogno di una nuova educazione per formare un essere umano nuovo. La responsabilità tocca allo stato, come anche alla chiesa e alla moschea. Ogni capo religioso, in ogni religione, ne è responsabile. Abbiamo bisogno di una nuova educazione basata sulla misericordia e sull’amore, sull’uguaglianza e sulla pari dignità data da Dio a tutti.
 Quando riusciremo a formare un uomo nuovo, formeremo anche un credente nuovo, capace di vedere Dio creatore, misericordioso e amico degli uomini. Così nascerà anche una nuova società basata sulla giustizia, sulla libertà e sulla collaborazione. Con un uomo nuovo nascerà uno stato nuovo per tutti i suoi cittadini, quale che sia la loro religione.
  Un’educazione religiosa sana, per il cristiano e per il musulmano, ciascuno nella sua religione, rende possibile un progetto nazionale nuovo nel quale tutti e ciascuno sono ugualmente uomini e cittadini, tutti credenti e ciascuno fedele alla sua religione. Un progetto nazionale crea una patria per tutti e al di sopra di tutti. È uno slogan che sentiamo ripetere spesso, ma che finora non abbiamo saputo realizzare. L’unione e l’uguaglianza non sono ancora sufficientemente realizzate. Esistono ancora fra noi discriminazioni o privilegi tra i cittadini a motivo della religione o della libertà. Nei nostri paesi addirittura esistono ancora ingiustizie, delitti, torture in detenzione per chi rivendica la libertà. Dobbiamo ricordare i mali che ancora esistono, per non dimenticare che non abbiamo ancora raggiunto la perfezione. Abbiamo ancora molto lavoro da fare per educare, formare e purificare.

Chi educa? Chi forma l’uomo nuovo?
15. Siamo paesi «religiosi». La religione ci ha divisi in passato e in alcuni casi e luoghi continua tuttora a dividerci. Perciò, come abbiamo già detto, i leader religiosi hanno la responsabilità di lavorare alla nuova educazione. Infatti o assicuriamo una formazione sincera, che dica chiaramente a ogni uomo e donna che ogni credente, anche di una religione diversa, è suo fratello e sua sorella, e tutti i cittadini sono fratelli e sorelle, oppure continueremo a dire che non siamo tutti uguali e che «tu sei migliore di tuo fratello». Questa è stata l’educazione religiosa impartita fino a ora, ed è stata per ciò stesso un terreno fertile per le discordie, le guerre civili e l’oppressione di chi fosse per un aspetto o per l’altro diverso.
 Abbiamo bisogno di una nuova educazione religiosa e civile che dica a ognuno: tu sei anzitutto una persona umana, creata da Dio, e ogni altra persona diversa da te è, come te, creatura di Dio. Per la creazione noi siamo tutti fratelli e sorelle. E in patria siamo tutti uguali.
 Abbiamo bisogno di un’educazione religiosa che ricordi sempre il comandamento di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri» (cf. Gv 13,34) senza limiti. Gesù non dice: amate i vostri fratelli che credono come voi, dice: «Amatevi gli uni gli altri… amate il vostro prossimo come voi stessi» (cf. Gv 12,15; Gal 5,14). Il «prossimo» è ogni persona umana, senza limiti e senza classificazione.
Il capo religioso ha un ruolo determinante da svolgere in questa nuova educazione. È lui infatti a ispirare gli atteggiamenti assunti in famiglia, nella scuola e nella società. L’educazione in famiglia ha bisogno di purificarsi da ogni atteggiamento che rifiuta chi è diverso nella sua religione e dai pregiudizi del passato, trasmessi di generazione in generazione. La famiglia deve passare per una fase di purificazione, di cambiamento di mentalità e di comportamenti verso l’altro.
 In tutta la società bisogna operare una conversione. I massacri, le guerre civili e le crudeltà degli ultimi anni non sono ancora terminati, e tutto questo richiede purificazione, conversione e un passaggio dalla morte alla vita.
 Vi sono ancora persone che uccidono in nome di Dio, o che educano potenziali assassini basandosi su vecchi metodi educativi. Anch’essi per parte loro devono cambiare, per poter acquisire uno spirito nuovo ed educare uomini e donne capaci di amare e rispettare tutti quelli che professano una religione diversa.
 Anche le nostre scuole private e pubbliche, le nostre università e i mezzi di comunicazione sono responsabili della nuova educazione, che dice a tutti: siamo tutti uguali in umanità e nella dignità che Dio ci ha dato. I responsabili delle scuole private e pubbliche devono chiedersi: che tipo di credente, cristiano o musulmano o druso, stiamo preparando? Che tipo di cittadino e che futuro prepariamo per il paese? Stiamo costruendo una società unita, compatta, nonostante le differenze religiose o partitiche, o stiamo alimentando il confessionalismo religioso o politico e preparando guerre civili in nome di Dio o del partito?
 Che tipo di credenti vogliamo? Vogliamo credenti e cittadini forti e fraterni, che non opprimono nessuno e non si lasciano opprimere da nessuno. Credenti la cui forza sta nella loro capacità di amare e di opporsi a ogni aggressione contro loro stessi o contro gli altri.

Capitolo 3:  Che cosa diciamo  ai leader occidentali?

lunedì 30 luglio 2018

Il Patriarcato Latino pubblica una dichiarazione sulla nuova legge di Israele, “Stato-Nazione”

La recente promulgazione della Legge Fondamentale (Basic Law) che dichiara “Israele Stato –Nazione del Popolo Ebraico” è causa di grande preoccupazione. Promulgata in apparenza per motivi politici interni, mentre definisce Israele come lo Stato-nazionale del popolo ebraico, non offre nessuna garanzia costituzionale per i diritti degli autoctoni e delle altre minoranze che vivono nel Paese. I cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione, restano totalmente ignorati da questa legge.
È inconcepibile che una Legge costituzionale ignori un intero segmento di popolazione, come se i suoi membri non fossero mai esistiti. Anche nel caso in cui tale legge non abbia effetti concreti, essa manda un segnale inequivocabile ai cittadini Palestinesi di Israele, comunicando loro che in questo Paese non sono a casa loro. La lingua araba è stata degradata da lingua ufficiale a lingua “a statuto speciale”, e ci si è assunti l’impegno di lavorare per lo sviluppo dell’insediamento degli Ebrei sul territorio, senza nessuna menzione allo sviluppo del paese per il resto dei suoi abitanti.
La Basic Law è esclusiva piuttosto che inclusiva, contestata più che consensuale, politicizzata più che fondata sulle norme fondamentali comuni e accettabili per tutte le componenti della popolazione.
Questa legge discriminatoria contravviene esplicitamente alla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, così come alla Dichiarazione di Indipendenza dello stesso Israele. La prima garantiva l’istituzione di uno Stato Ebraico assicurando pieni diritti civili agli Arabi che abitano in esso, e nella seconda i Fondatori del Paese chiaramente ed inequivocabilmente si preoccupavano di incoraggiare il suo sviluppo per il bene di tutti i suoi abitanti e di assicurare la completa eguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti, indipendentemente dalla religione, dalla etnia o dal sesso di appartenenza.
Infine, questa legge contravviene e contraddice la Legge Fondamentale “Dignità umana e Libertà” promulgata nel 1995 che garantisce il rispetto della dignità di ogni persona. Dove c’è discriminazione, non c’è dignità.
In altre parole, la legge dice che gli Ebrei non hanno gli stessi diritti degli Arabi e rifiuta di riconoscerne l’esistenza.
Non è sufficiente avere e garantire diritti individuali. Ogni Stato con larghe minoranze dovrebbe riconoscere i diritti collettivi di queste minoranze, e garantire la difesa della loro identità collettiva, comprese le tradizioni religiose, etniche e sociali.
I cittadini cristiani di Israele hanno la stessa preoccupazione di ogni altra comunità non-ebraica nei confronti di questa legge. Fanno appello a tutti gli appartenenti allo Stato di Israele che ancora credono nel concetto fondamentale dell’eguaglianza tra i cittadini di una stessa nazione, perché esprimano la loro obiezione a questa legge e ai pericoli derivanti da essa per il futuro di questo Paese.
Patriarcato Latino di Gerusalemme
Dichiarazione in francese e in inglese 

domenica 11 settembre 2016

Card. Leonardo Sandri :“Tutti là siamo nati", in quei luoghi, sotto le macerie frutto dei peccati, delle violenze e delle miopie di molti uomini e di molti poteri del mondo, è rimasta la sorgente posta da Dio

BERGAMO – Omelia del Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, nella celebrazione Eucaristica per il conferimento dell’Ordinazione Episcopale a S.E. Mons. Pierbattista Pizzaballa, Arcivescovo Titolare di Verbe e Amministratore Apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini – Cattedrale di Bergamo, sabato 10 settembre 2016 A.D.
Patriarcato Latino di Gerusalemme
  Carissimo fra Pierbattista!
Abbiamo appena ascoltato queste parole : “la Santa Chiesa Cattolica chiede che sia ordinato Vescovo il presbitero Pierbattista Pizzaballa”. Il 15 settembre di ventisei anni fa, nella cattedrale di Bologna, l’amato Cardinale Biffi che impose le mani ordinandoti sacerdote diceva a te e ai tuoi compagni: “è la Sposa stessa di Cristo a implorare il suo Sposo: è dunque una richiesta impreziosita dalla indefettibile fedeltà sponsale.. motivata dalla sua preoccupazione materna.. Ciò che voi diventate, lo diventate per sempre; ciò che oggi avviene in voi, avviene una volta per tutte…”.
Contempliamo la Chiesa sposa di Cristo e Madre di tutti i credenti, e facciamo oggi una singolare esperienza della sua cattolicità: il mandato apostolico del Santo Padre Francesco, Successore dell’apostolo Pietro, la tua famiglia, prima chiesa domestica, l’amata Chiesa di Bergamo, che ci accoglie nella sua cattedrale, l’Ordine dei Frati Minori, in particolare i Frati della Custodia di Terra Santa, e ora la Diocesi Patriarcale di Gerusalemme, alcuni Nunzi Apostolici, Vescovi, Delegati ecumenici, sacerdoti e fedeli laici che qui si sono radunati per pregare e gioire insieme per l’opera che il Signore ha iniziato in te, e anche in loro attraverso la tua presenza e il tuo ministero.
  1. Nel mistero della Chiesa, insieme al Vescovo Pierbattista, ci rendiamo conto che al centro non c’è un uomo, ma la grazia di Dio che ha operato e opererà ancora più efficacemente dentro di lui. Ce lo ha ripetuto san Paolo, le cui parole appena proclamate sono diventate il tuo motto episcopale: “Sufficit tibi gratia mea  – Ti basta la mia grazia”. 
E’ una espressione ben lungi da un vago sentimentalismo o da una fede disincarnata. Paolo arriva a “vantarsi ben volentieri delle proprie debolezze, perché dimori in lui la potenza di Cristo”, di fronte ad una situazione di grande difficoltà nell’esercizio del ministero apostolico che gli è stato affidato dal Signore.
Attraverso le esperienze dolorose Paolo giunge alla percezione molto semplice che Cristo è il Signore e che il suo ministro si prepara liberando il cuore da tutto ciò che poteva essere una forma di successo proprio, divenendo strumento sempre più adatto nelle mani di Dio. Attraverso l’attimo di incomprensione con la comunità di Corinto, certamente riprende coscienza dell’assolutezza e della trascendenza indescrivibile del mistero di Dio, che gli era diventato così vicino nell’apparizione del Cristo sulla strada verso Damasco, tanto quasi da arrivare a sembrargli suo, mentre in realtà è al di là di ogni capacità umana di parlarne e di disporne. Il dolore dell’esperienza credente di Paolo fa scaturire insieme ad una lettera che lui stesso definisce “scritta tra le lacrime” anche l’altezza e l’intensità della riflessione sul ministero della Nuova Alleanza e della riconciliazione, come servizio (diakonía) ai fratelli nella fede e come collaborazione alla loro gioia. Invochiamo l’intercessione di san Paolo sul vescovo Pierbattista, perché il nuovo passo chiesto nella Chiesa alla sua vita di fede sia vissuto come modo per approfondire la propria esperienza di credente che lo renda autenticamente Pastore secondo il cuore di Dio.
  1. Il testo del profeta Isaia, tratto dal cosiddetto “libro della consolazione”, pone l’uomo di ogni tempo anzitutto dinanzi ad una domanda: “Perché spendi denaro per ciò che non sazia e non disseta, ritrovandoti ultimamente come il popolo disperso e esiliato a Babilonia?”. La risposta però consiste non in un giudizio di condanna da parte di Dio, ma in una promessa di fedeltà e di alleanza eterna. L’iniziativa ancora una volta è del Signore che redime, raduna dalla dispersione, ama e si prende cura. Ma Dio ha bisogno del profeta che se ne faccia portavoce ed interprete, uno che viva tra gli uomini e sia capace di ridestare in loro la fame e la sete dell’Autore della Vita. Il Vescovo allora, superato il senso di inadeguatezza e confermato nell’assoluto primato della grazia, di cui ha fatto egli per primo esperienza, passa annunciando la consolazione che viene da Dio “consolate, consolate il mio popolo; come sono belli sul monte i piedi del messaggero che annuncia la pace”. Tanti cuori in Terra Santa e particolarmente nel territorio del Patriarcato Latino hanno sete di giustizia e di pace: dimensioni fondamentali del vivere umano, che prima ancora che rivendicate come diritto dagli altri devono essere desiderate e operate nei rapporti dentro la Chiesa e tra le Chiese, oltre che con i credenti Ebrei e Musulmani. Essere Vescovo per la Chiesa Latina che è in Gerusalemme, Amministrandola a nome e per conto del Santo Padre, come pure guidando l’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, è compito senz’altro arduo, ma potrà essere vissuto pieno di gioia e di serena determinazione, perché ancorati nella Parola del Signore e non nei nostri progetti umani. La Parola infatti non è incatenata né messa in fuga, ma efficace e porta frutto: “come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia… così sarà anche della parola uscita della mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, e senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata”.
  1. Nella Terra Santa, che tu, Padre Pierbattista, hai abitato e servito da 26 anni, il Verbo fatto carne ci ha fatto conoscere il desiderio di Dio, la salvezza per l’umanità, lì Colui che è la Parola del Padre ha portato a pienezza la Rivelazione, “parlando a noi come ad amici”. Come il Salmo, anche noi diciamo “Tutti là siamo nati”. Nella fede vogliamo rinnovare la consapevolezza che in quei luoghi, sotto le macerie frutto dei peccati, delle violenze e delle miopie di molti uomini e di molti poteri del mondo, è rimasta la sorgente posta da Dio, che zampilla per dare sollievo e fecondità. E’ la presenza stessa di Gesù che è il Vivente. Sacerdoti e fedeli, guidati dal Vescovo, dovranno avere ogni giorno il coraggio di scavare più in profondità dentro il proprio cuore, attraverso le vicende della storia, per ritrovare il Cristo che ne è il Signore. Allora la comunità cristiana, che chiede di essere preservata, sostenuta e protetta, continuerà ad essere dono per tutti, per coloro che abitano quei luoghi da secoli, ma anche per i pellegrini e per le migliaia di lavoratori migranti che ormai ne fanno stabilmente parte. L’unico strumento nelle nostre mani per evitare che i cristiani emigrino dal Medio Oriente, o vengano fatti uscire da progetti non chiari, è trovare sempre forme antiche e nuove per essere chiesa in uscita, che ha a cuore la promozione di spazi di incontro e riconciliazione. Il Vescovo, che nella porzione di Chiesa locale presiede nella carità, mentre vive il ministero della santificazione (munus sanctificandi), spezzando il pane della Parola e dell’Eucarestia, edifica la comunità cristiana come casa fondata sulla roccia. Ed insegnando, educa a pensare che tale stabilità, proprio perché ci è data da Dio, è anche dono che ci impegna a protenderci in avanti verso chi soffre, bisognoso di una speranza affidabile per la propria vita e il proprio destino, anche attraverso la solidarietà concreta – e pensiamo con riconoscenza a quanti, anche tra i presenti, da tutto il mondo si impegnano nel sostenere la vita delle Chiese in Terra Santa.
E’ lo stile del Pastore tratteggiato da San Gregorio Magno nella sua Regola Pastorale: “La Verità stessa, quando apparve in mezzo a noi assumendo la natura umana, si dà alla preghiera sul monte e compie miracoli nelle città, suggerendo con l’esempio ai pastori saggi di accostarsi con amore alle necessità degli afflitti, pur tenendo lo sguardo alla contemplazione. La carità infatti raggiunge le altezze quando scende con gesto d’amore alle infime necessità dei poveri, e quanto è maggiore la benevolenza nel piegarsi verso gli umili, tanto è più rapido il volo verso Dio” (2,5).

  1. Intercedano per te la Vergine Maria e San Francesco, e faccia loro corona la preghiera e il canto degli angeli di Betlemme: sia il tuo episcopato capace di mettersi in cammino, come sono raffigurati nella Basilica della Natività, per condurre il gregge a te affidato ad incontrare, riconoscere e servire il Verbo della vita; abbi il coraggio di tendere sempre la propria mano, come Tommaso, al costato trafitto di Cristo Crocifisso e Risorto, per essere confermato e confermare nella fede i fratelli. Sia un ministero di luce e di bellezza, che non si spaventa di fronte alle sfide che gli sono poste innanzi. Ti accompagni nel viaggio che oggi inizi questa parola del Santo Padre: “Il volto delle nostre comunità ecclesiali può essere coperto da ‘incrostazioni’ dovute ai diversi problemi e ai peccati. La nostra opera deve essere sempre guidata dalla certezza che sotto le incrostazioni materiali e morali, anche sotto le lacrime e il sangue provocati dalla guerra, dalla violenza e dalla persecuzione, sotto questo strato che sembra impenetrabile c’è un volto luminoso come quello dell’angelo del mosaico della Basilica di Betlemme. Coopera a questo ‘restauro’ – come già fece San Francesco – perché il volto della Chiesa rifletta visibilmente la luce di Cristo Verbo incarnato”. Amen.                                                http://it.lpj.org/2016/09/10/omelia-del-cardinale-leonardo-sandri-per-lordinazione-episcopale-di-mons-pizzaballa-bergamo-10-settembre/

martedì 23 febbraio 2016

“I rifugiati siriani devono poter rientrare a casa loro”


Patriarcato latino di Gerusalemme 
Quest’anno, l’incontro annuale organizzato in Germania, ha avuto luogo sabato 13 febbraio, anniversario della morte di suor Lucia dos Santos, testimone delle apparizioni di Fatima, e di padre Werenfried fondatore dell’ Aiuto alla Chiesa che Soffre. Una doppia, significativa, commemorazione dato che padre Werenfried aveva, in più occasioni, consacrato la sua opera alla Madonna di Fatima. L’Aiuto alla Chiesa che soffre è una fondazione internazionale cattolica di diritto pontificio che opera in 145 paesi, tra cui la Terra Santa, e aiuta i cristiani in difficoltà, minacciati, perseguitati, rifugiati o nel bisogno.
Nel suo intervento, mons. Shomali vescovo ausiliare di Gerusalemme ha parlato della tragedia siriana e del fondamentalismo islamico. A una domanda circa l’eventualità di un cambiamento nell’Islam, il vescovo ha risposto che tale cambiamento “non potrà venire che dall’interno dell’Islam”. Ha ricordato le iniziative del presidente Al-Sisi, in Egitto, e il suo intervento presso l’Unversità di Al-Azhar al Cairo per un rinnovamento del discorso religioso islamico, finalizzato a eliminare ogni deriva fanatica. Mons. Shomali ha anche citato la Lettera aperta al mondo musulmanodel filosofo francese e musulmano Abdennur Bidar. Questi invita l’Islam, in preda a una crisi profonda, a mettersi in gioco davanti ai problemi contemporanei e a un vero dialogo con le società occidentali. Secondo Abdennur Bidar, l’Islam si deve interrogare sul ruolo nella società di una religione che il Jihadismo vorrebbe totalitaria.
Sul punto della risoluzione del conflitto siriano, mons. Shomali ha detto: “è assolutamente necessario cooperare con Assad, presidente democraticamente eletto, al fine di sradicare il così detto Stato Islamico. Dopo di che dichiarare un cessate il fuoco immediato; poi ci saranno la ricostruzione della Siria e il ritorno dei rifugiati siriani”. A coronamento di questo processo, osserva il vescovo di Gerusalemme, “si terranno libere elezioni”.
Nella seconda tavola rotonda, l’arcivescovo emerito di Colonia, il cardinal Joachim Meisner, ha invitato i partecipanti a uno scambio sul tema delle apparizioni di Fatima e sul loro rapporto con la caduta del Muro di Berlino.

Caritas Libano ai Paesi donatori: più degli aiuti, serve fermare la guerra e il traffico di armi


AsiaNews

“La cosa più importante, il punto iniziale è fermare questa guerra. Bisogna far tacere le armi, oggi e non domani, l’urgenza aumenta ogni giorno che passa. Sino a che vi sarà la guerra non si potranno mai risolvere i problemi anzi, il conflitto è destinato a intensificarsi”.
È l’appello, lanciato attraverso AsiaNews, da p. Paul Karam, direttore di Caritas Libano, da quattro anni in prima fila nell’accoglienza del flusso continuo di famiglie siriane (e non) che fuggono dalla guerra. In questi giorni il sacerdote si trova a Londra, per partecipare alla Conferenza internazionale dei Paesi donatori iniziata oggi. “Sino a che vinceranno gli interessi personali - avverte p. Karam - e si continuerà ad alimentare il traffico di armi, a pagarne il prezzo sarà la popolazione civile, i poveri, quanti lavorano ogni giorno per guadagnare il pane quotidiano per sopravvivere e dare un’educazione ai figli”. 
A Londra si sono riuniti i leader mondiali per raccogliere i 9 miliardi di dollari necessari per rispondere ai fabbisogni dei milioni di profughi siriani, fuggiti dalla guerra civile. Il denaro servirà anche per attuare politiche di accoglienza ai rifugiati che hanno lasciato il Paese, in cerca di accoglienza nelle nazioni dell’area o verso l’Europa e il Nord America. Secondo fonti Onu nel 2015 sono stati raccolti solo il 43% dei fondi necessari (2,9 miliardi di dollari) per gli aiuti.
Il vertice dei Paesi donatori, il quarto, intende rispondere all’appello lanciato dalle Nazioni Unite che per il futuro chiedono 7,73 miliardi di dollari per la Siria, cui si aggiungono 1,23 miliardi per gli stati coinvolti nella crisi. Presenti almeno 70 fra capi di Stato e di governo, oltre al segretario generale Onu Ban Ki-moon e almeno 90 rappresentanti delle ong e degli enti attivi sul campo e in prima fila nelle operazioni di aiuto e soccorso. 
Caritas Libano in questi anni non ha mai fatto mancare l’assistenza, garantendo non solo cibo e aiuti ma anche sostegno psicologico e favorendo il confronto fra cristiani e musulmani, in particolare fra i giovani. “È importante intervenire sotto l’aspetto sanitario, garantire l’educazione dei bambini per dare loro un futuro, ma la cosa più importante è fermare la guerra. Questa è una responsabilità della comunità internazionale, che deve trovare una soluzione per bloccare il traffico di armi. Non si può continuare così… si trovano sempre i soldi per le armi, per distruggere, e non per fermare le violenze e aiutare la popolazione. Dobbiamo fermare questa tragedia”. 
Per il direttore di Caritas Libano il cammino è quello tracciato da papa Francesco nei suoi appelli alla pace. In questo senso il fallimento - attuale - dei negoziati di Ginevra è fonte di “grande dispiacere”, perché le parti “devono trovare la pace e guardare al bene del popolo, non all’interesse personale”. “Il Medio oriente è un vulcano in subbuglio - conclude il sacerdote - speriamo che la comunità internazionale si svegli, rilanciando la solidarietà fra i popoli e l’aiuto ai migranti”.