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venerdì 3 marzo 2023

Il Congresso Usa vota per ripristinare tutte le sanzioni alla Siria

 
foto di Elia Kajmini

Piccole Note, 3 marzo 2023

“La Camera degli Stati Uniti questa settimana ha votato in modo schiacciante a favore di una mozione per mantenere le sanzioni contro la Siria, nonostante il devastante terremoto che ha ucciso almeno 5.900 persone”. Così The Cradle.

Maggioranza “bulgara”

La risoluzione, presentata dal deputato repubblicano Joe Wilson e sottoscritta da altri 51 deputati, è stata approvata con un voto di 414 a 2. Contrari solo Thomas Massie e Marjorie Taylor Greene.

La risoluzione chiede all’amministrazione Biden di continuare ad rimanere fedeli al Caesar Syria Civilian Protection Act del 2019, “che ha imposto sanzioni paralizzanti alla Siria progettate per impedire al Paese di ricostruirsi dopo anni di guerra”, come scrive Dave DeCamp su Antiwar.

“La mozione – continua DeCamp – dichiarava che il governo del presidente siriano Bashar al-Assad ‘affermava in maniera menzognera’ che le sanzioni statunitensi impedivano di dare una risposta alle devastazioni del terremoto”.

E ancora, “la mozione della Camera affermava di ‘piangere’ le vittime del terremoto e descriveva l’applicazione del Caesar Act come un modo per ‘proteggere’ il popolo siriano”.

Approvando tale mozione, la Camera chiede la revoca del gesto conciliante dell’amministrazione Biden che, dopo il sisma, ha sospeso parte delle sanzioni comminate a Damasco. Detto questo, anche la sospensione attuale, anche se non sarà revocata, non ha un grande impatto sugli aiuti.

Così su Msnbc news: “La scorsa settimana, il governo degli Stati Uniti ha annunciato una moratoria di 180 giorni sulle sanzioni per favorire i soccorsi ma, anche se le sanzioni prevedevano precedenti esenzioni per l’assistenza umanitaria, molti analisti temono che la revoca di queste sanzioni non cambierà molto”.

L’inefficace sospensione, parziale e temporanea

“[…] Ad esempio, le banche e le istituzioni finanziarie private non sono disposte a inviare denaro in Siria sotto forma di rimesse, tanto necessarie, e altri aiuti finanziari per paura di ritorsioni. Poi c’è il fatto che la stragrande maggioranza del petrolio del paese è controllata dagli Stati Uniti”.

Peraltro, si può immaginare quanto sia incisiva una sospensione di alcune sanzioni per soli 180 giorni, solo se si pensa alle conseguenze dei terremoti che hanno afflitto l’Italia, dove ancora l’Aquila e Amatrice, solo per fare due esempi, sono alle prese con la ricostruzione (e il nostro Paese è più sviluppato e non ha subito una devastante guerra decennale). Tant’è.

Poco da aggiungere. Questa la politica sanguinaria ormai è diventata approccio ordinario dell’Impero verso il povero Paese mediorientale. La colpa di Assad è quella di aver resistito al tentativo di regime-change, anche se un terzo del Paese, nel quale si trovano i giacimenti di petrolio, resta occupato dagli Stati Uniti, i quali usano allo scopo i curdi siriani, a loro volta succubi e vittime dei loro disegni (tanto è vero che, quando Erdogan li ha attaccati, hanno chiesto aiuto ad Assad, segno che l’America li aveva scaricati).

Tale l’ipocrisia di un Impero che vuole apparire come difensore della libertà e della democrazia e, per inciso, accusa i russi di attentare all’integrità territoriale dell’Ucraina….



Padre Lufti: "C'è bisogno di solidarietà. Il sisma rischia di cancellare ogni speranza"

È passato quasi un mese dal terribile sisma che ha colpito, esattamente la notte del 6 febbraio scorso, la regione tra la Turchia e la Siria, e sui media non si parla più, se non raramente, di questa tragedia che ha provocato ad oggi in totale nei due Paesi 53.565 vittime e innumerevoli feriti. Ma, dopo i primi momenti, terminate le ricerche di eventuali superstiti, restano il dolore e le sofferenze quotidiane di migliaia di persone e famiglie senza casa e senza lavoro e restano la paura di nuove scosse di assestamento e i timori nei riguardi del futuro. 

In Siria, in particolare, tra la gente si vive un clima generale di sfiducia. Per esprimere solidarietà alla popolazione oggi sono giunti ad Aleppo monsignor Giuseppe Andrea Salvatore Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Conferenza episcopale italiana, con il cardinale Mario Zenari, nunzio in Siria. Ad accompagnarli nella visita il padre francescano Firas Lutfi, ministro per la regione francescana di Siria, Libano, Giordania che vive nella città siriana. Infatti, se una certa solidarietà c'è stata all'inizio da parte della comunità internazionale verso i siriani vittime del sisma, c'è bisogno che gli aiuti proseguano per dare la possibilità alle popolazioni di non abbandonare la loro terra e di immaginare per loro un avvenire migliore.  A Vatican News padre Firas Lutfi spiega l'importanza della visita in corso e descrive come si vive oggi sui luoghi del terremoto.


Padre Firas, ci dice qualcosa della visita in corso?

Siamo qui a visitare un po' le zone colpite dal terremoto, stiamo percorrendo appunto tutta quella zona che è stata veramente danneggiata. Ma visitiamo anche le famiglie, le persone povere che hanno sofferto sia il trauma del sisma sia la preoccupazione per il presente e per il futuro. È una visita di solidarietà, una visita di supporto. Il cardinale Zenari ha più volte visitato la Siria, è invece la prima visita della Conferenza episcopale italiana nella persona di monsignor Baturi. Era programmata prima del terremoto, ma dopo questo evento c'erano ragioni in più per venire, per esprimere la solidarietà anche di Papa Francesco e di tutti i pastori della Chiesa italiana. Quindi è una visita molto apprezzata, molto di rinforzo e di incoraggiamento alla popolazione che sta in ginocchio.

Ecco, qual è la situazione oggi nelle località terremotate. Ci sono ancora scosse? C'è paura? Dove hanno trovato rifugio le persone che hanno perso le proprie case?

Sì, ci sono tante persone che hanno perso la loro casa e che hanno trovato riparo nelle chiese e nelle moschee e nei centri creati per l'accoglienza, ma la situazione qui è drammatica perchè centinaia di famiglie sono costrette a stare tutte insieme in una condizione di grande disagio, priva di privacy, e in una grande confusione. Sono piccoli e grandi, adulti, bambini ragazzi e ragazze che vivono così, in grandi aule semplicemente.

Ma si sta pensando a qualche sistemazione un po' meno provvisoria per loro?

Sì, sì certo, adesso grazie anche a questa collaborazione che la comunità internazionale in qualche modo ha voluto offrire, c'è un progetto per la costruzione di case prefabbricate, perchè ora ci sono molte famiglie sotto le tende.

Farà certamente anche molto freddo in questo periodo, ma come viene distribuito il cibo, il vestiario, le cose più necessarie?

Gli aiuti vengono distribuiti secondo le necessità e il numero delle persone che sono nei centri di emergenza che sono stati creati, noi francescani abbiamo parecchi centri qui ad Aleppo, almeno tre, e anche l'episcopato latino sta ospitando centinaia di persone. Insomma si cerca, entro i limiti del possibile, di aiutarli a stare bene. Ma soprattutto la gente ha paura, tanti non hanno problemi con la casa ma la paura della prima scossa ha fatto veramente sentire molta molta preoccupazione. È per questo che tanti bambini non vogliono più ritornare a casa, perché la casa invece di farli stare tranquilli e sicuri, adesso per loro rappresenta una minaccia, un rischio.

Sono presenti ancora organizzazioni e volontari per sostenere le persone in difficoltà?

Fortunatamente il terremoto ha richiamato molti giovani che lavorano qui con le organizzazione locali.

Dall'estero invece non c'è più nessuno?

Qualcuno c'è forse in Turchia, in Siria meno, solo alcuni Paesi arabi hanno mandato aiuti.

Qual è il sentimento più diffuso tra la gente: disperazione, fiducia, speranza, paura?

La paura è prevalente e poi sfiducia e disperazione, purtroppo, un senso di smarrimento e di abbandono. Le persone non hanno più fiducia nemmeno di ritornare nelle loro case. Adesso sono nel convento dei francescani, dove si trovano 3000 persone e nessuno di loro vuole andare a casa perché la casa è vista come un pericolo.

E voi come piccola Chiesa locale come fate ad aiutare tanta gente? Che cosa chiedete alla comunità internazionale?

Chiediamo appunto alla comunità internazionale più attenzione, chiediamo di superare le divisioni, le visioni miopi, chiediamo di levare in modo definitivo quelle sanzioni che pesano soprattutto sui civili e sulle persone innocenti. Abbiamo bisogno di una pace permanente, che metta fine al male che per dodici anni i siriani hanno subito prima con la guerra ora anche con il terremoto, una tragedia dentro la tragedia. Quindi è necessario un impegno veramente di tutti, soprattutto della comunità internazionale.

Localmente in questo momento c'è collaborazione tra cristiani e musulmani nelle zone colpite dal sisma?

Certamente c'è collaborazione tra tutti i siriani, musulmani e cristiani. Nel nostro monastero adesso vedo con i miei occhi moltissime famiglie musulmane che abbiamo accolto perché davanti a tragedie del genere non si fa mai distinzione tra una religione e l'altra, tra una confessione e l'altra. Sono tutti figli di Dio, sono persone ferite, come quella che il buon samaritano ha cercato di curare e di soccorrere, lungo le strade dell'umanità.

Che cosa ha in cuore, padre Firas, che cosa vorrebbe ancora dirci?

Voglio dire che ringrazio sempre la Radio del Papa per l'attenzione e per la possibilità di ascoltare la voce di questi poveri che gridano, che vivono nell'abbandono, nello smarrimento. Noi cerchiamo questa solidarietà internazionale iniziata quasi un mese fa, perché possa davvero dare più speranza e più coraggio alle persone di restare nelle loro terre. Perché dopo questi eventi tragici di solito le persone tendono ad abbandonare il loro Paese, la loro terra, non avendo più nulla su cui appoggiarsi.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-03/terremoto-sisma-siria-chiesa-solidarieta-padre-lutfi-visita-cei.html

lunedì 9 marzo 2020

Padre Firas: «Ecco come soffre la Siria»


di Maria Acqua Simi 
Padre Firas Lutfi è un frate francescano della Custodia di Terra Santa. Siriano, da pochi mesi si trova a Beirut perché è stato nominato Ministro della regione di San Paolo (Siria, Libano e Giordania). Dove si trovano i “dimenticati di Iblid”, ricordati all’Angelus da papa Francesco.
«È una responsabilità che nessuno vorrebbe portare sulle spalle, mi affido ogni giorno al Signore e a Lui affido anche i trenta frati che vivono in questi tre Paesi», racconta. La situazione non è semplice. Mentre l’intervista è in corso, veniamo raggiunti dalla notizia che il Libano è stato dichiarato fallito. Default. La Svizzera del Medio Oriente, da mesi percorsa da proteste e manifestazioni, ha ceduto. È crollata sotto il peso di un debito economico diventato insostenibile, causato dalla corruzione della politica (dove tutti sono colpevoli, ma nessuno si sente responsabile) e dall’instabilità dovuta all’influenza che forze regionali (Iran, Turchia, Paesi del Golfo) e internazionali esercitano a quelle latitudini.

«La nostra prima preoccupazione, molto concreta, è come far arrivare gli aiuti in Siria. Se fino a due anni fa, in piena guerra, potevamo in qualche modo far passare denaro e generi di prima necessità dalla frontiera libanese, oggi non è più così perché l’intero sistema bancario libanese è bloccato». Non si blocca però l’emergenza umanitaria: «Se in Libano è difficile trovare lavoro e il Paese subisce la pressione fortissima di milioni di profughi, in Siria ci sono bambini che ad Aleppo e in altri villaggi più lontani muoiono di freddo». E non è una metafora. Mancano letteralmente vestiti e coperte, non c’è nafta per far funzionare i generatori, non parliamo dell’energia elettrica.

«Questo, lo devo dire, è causato soprattutto dall’embargo internazionale che impedisce di far transitare aiuti in Siria. A pagarne il prezzo più altro sono i civili. Noi frati però non andiamo via, rimaniamo per stare vicino alla nostra gente». Come nei villaggi di Yacoubie e Knaye, racconta. Lì padre Hanna Jallouf, 67 anni, e padre Luai Bsharat, quarantenne, continuano la loro opera di carità a fianco delle oltre trecento famiglie cristiane presenti, sebbene da anni ormai l’intera area sia sotto controllo degli jihadisti e delle milizie di Al Nusra. «Vivono sotto la sharia. Le chiese e i cimiteri sono stati spogliati delle croci, non possono celebrare messa pubblicamente né tantomeno fare processioni. Anche i terreni (è una grande zona di agricoltura, ndr) non possono essere coltivati e la sopravvivenza dipende dagli aiuti delle poche Ong internazionali che riescono a raggiungerli». I due religiosi hanno cura di tutta la comunità cristiana, non solo quella latina, ma anche quella armena e quella greco-ortodossa. In queste ultime settimane, dopo gli scontri con la Turchia che ha invaso l’area appoggiando i ribelli, si sono fatti carico di aiutare moltissimi musulmani fuggiti dalla zona di Idlib o dai campi profughi.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto
«Non vedo padre Hanna dal 2013, è troppo pericoloso recarsi in quelle zone, però ci sentiamo spesso al telefono e mi spalanca il cuore sapere che loro rimangono anche per custodire i luoghi della memoria cristiana. La memoria è importantissima, perché viviamo calpestando la terra di quella che era conosciuta come l’antica Antiochia, citata nel Nuovo Testamento, dove per la prima volta i seguaci di Cristo prendono il nome di cristiani. Lì passarono Paolo, Pietro, Luca e ancora oggi i cristiani e i frati presenti hanno la coscienza della storia grandissima a cui apparteniamo tutti: quella cristiana che è fatta di carità e testimonianza». Questo si traduce in pacchi alimentari per migliaia di persone, messe celebrate a dispetto di qualunque condizione, assistenza negli ospedali, cura dell’educazione dei giovani, supporto alle giovani coppie che «sempre meno, ma con sempre più coscienza» decidono di sposarsi. 

Nelle zone più difficili da raggiungere come quelle dove si combatte, la gente si arrabatta come può per sopravvivere, cercando di scampare alle milizie (i frati sono stati più volte rapiti, alcuni parrocchiani sono stati uccisi) e di sopravvivere all’inverno che quest’anno è stato particolarmente rigido. Andare via non è un’opzione, anche perché ormai è quasi impossibile
La presenza cristiana in Siria in questi nove anni di guerra è crollata: erano quasi due milioni nel 2010, ora tantissimi sono fuggiti. Ad Aleppo, per dare un’idea, si è passati dalle 200mila presenze alle 30mila. A rimanere nel Paese ora sono perlopiù anziani, malati, bambini e vedove. I pochi adulti rimasti devono confrontarsi con la mancanza di lavoro. «Oggi un dollaro vale mille lire siriane. Come fa a vivere una famiglia che guadagna 50 dollari al mese? Come può mangiare, vestire e mandare a scuola i figli? Con il guadagno di un mese vivono si e no una settimana», racconta ancora padre Firas. Che pone l’accento su una piaga nascosta, quella dei bambini nati durante le occupazioni e rimasti orfani oppure da donne che sono state violentate e dunque mai registrati e considerati i figli della vergogna. Solo ad Aleppo sono circa duemila, hanno un’età compresa tra i quattro e i sette anni e vagano per la città come fantasmi, non sono registrati all’anagrafe e non vanno a scuola. Per questo i francescani e Ahmad Badrehddin Hassoun, gran muftì di Aleppo, si sono uniti per aiutarli. Per l’islam non esiste l’adozione, ma il muftì ha condotto uno studio secondo il quale, nel rispetto della religione, una famiglia musulmana può prendere a carico un bambino e tenerlo in affido fino alla maggiore età. «Tengo particolarmente ad aiutare quei bambini, perché il dolore innocente ci interroga ogni mattina, ci fa chiedere al Signore un senso».

Ovunque, spiega, il bisogno è grande «e per questo chiediamo al Signore ogni giorno una fede salda». Senza retorica chiarisce che è come avere addosso una ferita che non si rimargina mai. «Siamo in Quaresima e come Gesù viviamo il calvario. Questa guerra ha toccato tutti noi, ci tocca ogni giorno. Nessuno qui avrebbe mai pensato di dover abbandonare la sua terra o di morire sotto delle bombe. Ha scosso i nostri cuori, le nostre certezze, ci ha fatto conoscere cosa sia il dolore in tutte le sue forme. Ma anche se ogni tanto capita di lasciarci andare allo sconforto, abbiamo sempre davanti come esempio Gesù. E la nostra fede ne esce rafforzata, diventa più matura giorno dopo giorno. Come diceva San Paolo è un tesoro in vasi di creta. Spesso abbiamo paura, siamo sommersi dalle preoccupazioni, ma continuiamo a custodirla perché cresca e porti frutto».

martedì 18 febbraio 2020

Strage bambini in Siria: Unicef e Save the Children lanciano l’allarme, la Chiesa siriana replica

uno dei tanti bambini di Aleppo resi mutilati dai missili
lanciati dai jhadisti sui quartieri della città fino a ieri
(foto Pierre le Corf)

Intervista di Paolo Vites a Fra Firas Lutfi
L’Unicef lancia l’allarme, ma cosa ha fatto finora per i bambini siriani? E cosa fanno le potenti nazioni occidentali, i cui giornali mettono in prima pagina le foto del piccolo Aylan, morto annegato, o di Iman, morta assiderata tra le braccia del padre? Non parlano di chi ha scatenato la guerra in Siria, una guerra per procura, dietro alla quale si nascondono le nazioni più potenti del mondo. Non dicono niente. Ma non ci sono solo Aylan e Iman, in questa guerra si contano almeno 300mila bambini morti”.

A parlare così, con voce alta e decisa, è padre Firas Lutfi, Superiore del Collegio di Terra Santa ad Aleppo, dopo l’“allarme” lanciato in queste ore dall’Unicef: “Il clima freddo presto colpirà di nuovo tutto il Medio Oriente, con temperature che scenderanno sotto lo zero in diverse aree e ogni inverno i bambini nella regione si ammalano, smettono di andare a scuola e rischiano di morire… Occorre un grande movimento globale e umano di carità o sarà una strage”.
L’Unicef – aggiunge Lutfi – non dice però che ‘un grande movimento’ esiste già e andrebbe aiutato: è la Chiesa siriana, che ha sempre sostenuto, da quando è iniziata questa guerra e ancora oggi, i bambini e le donne siriane. Nessuno dice che a Idlib, dove la Siria sta combattendo contro gli ultimi ribelli jihadisti per liberare la provincia, operano due padri francescani che accolgono nelle case dei cristiani e nei loro conventi tutti coloro che scappano dalle bombe, anche i musulmani. E la responsabilità dei giornalisti che tacciono su queste cose è gravissima”.

Padre Lutfi, l’Unicef lancia l’allarme, dopo il caso di Iman, la bambina di un anno e mezzo morta assiderata in un villaggio vicino ad Aleppo in braccio al suo papà che cercava disperatamente di raggiungere l’ospedale per farla curare. Come stanno le cose?
   Chiariamo alcune cose prima di entrare nei dettagli.
 I bambini rappresentano una linea rossa che non si può superare, vanno difesi in ogni istante, fin dalla nascita, come insegna il Magistero della Chiesa ed è ciò che il Vangelo richiama alla coscienza di tutti ogni giorno. In una guerra bambini, donne e anziani sono i primi a pagare con la vita le conseguenze delle atrocità e della cattiveria degli adulti. Detto questo, aggiungo un altro appunto: spesso e volentieri la vita di questi bambini viene strumentalizzata.

In che senso?
    Il caso di Aylan è diventato un simbolo, il simbolo di queste famiglie che scappano in cerca di una vita sicura. Ma non solo lui ha pagato, prima e dopo tanti altri Aylan e tante altre famiglie sono morti. Dove scoppia un conflitto i più vulnerabili sono i bambini, i primi ad andarci di mezzo, perché o civili sono i primi bersagli quando i combattimenti si fanno più intensi e cruenti.
Hassan, unico sopravvissuto della
sua famiglia nel bombardamento
dei jihadisti di Idlib su Aleppo,
il 25 gennaio di quest'anno

C’è però chi dice, come una volta gli americani, che in guerra si possono usare “le bombe intelligenti”: colpiscono gli obiettivi in modo chirurgico risparmiando però vittime civili…
    Ipocrisia vergognosa. La realtà, invece, ci dice che oltre alle bombe, ora si aggiungono situazioni climatiche durissime, come il freddo del deserto siriano, dove si può scendere anche sotto lo zero. E tutto questo accresce la tragedia. Piuttosto che piangere e basta sui corpi inermi di Iman o Aylan come simboli di questa strage di innocenti, tutti dovrebbero spostare l’attenzione sui responsabili di questa drammatica situazione e raccontare per quali veri fini, già nove anni fa, fu scatenata la guerra in Libia, in Siria e in Iraq, che ha già mietuto milioni di bambini e di anziani morti.

Si riferisce alle potenze occidentali e non solo, che hanno dato inizio a queste guerre che stanno devastando il Medio Oriente?
   Sono circa 300mila i bambini morti in questi nove anni. Invece di impietosire le coscienze portando alla ribalta uno o due casi drammatici, bisogna risolvere la questione alla radice. Non è giusto prendere in giro l’intelligenza degli uomini. La guerra non scoppia solo perché si vuole combattere un regime o abbattere un dittatore, ma per interessi politici e economici anche da parte di grandi nazioni che predicano la libertà, la democrazia e la dignità umana. La vita non è sacra solo se muore un americano o un europeo, la vita è sacra per tutti. Ma questo sembra non avere importanza.

Davanti alla denuncia dell’Unicef e dei media internazionali che hanno messo in prima pagina i casi di Aylan e Iman cosa dice?
   Direi che non si possono assumere solo posizioni singole di denuncia, ma occorre andare contro tutta la situazione che devasta la Siria.  Cito il caso della Turchia che invade la Siria. La Siria è un paese sovrano, deve difendere il proprio territorio, che già in precedenza era stato violato dai terroristi di tutto il mondo. È una guerra per procura. 
E il colmo è che l’esercito siriano, impegnato a liberare la provincia siriana di Idlib, viene dipinto come invasore.

Unicef e Onu non fanno mai riferimento all’impegno costante profuso in questi anni di violenze dalla Chiesa per aiutare il popolo siriano. Perché, secondo lei?
   Purtroppo certi mestieri dovrebbero mostrare maggiore onestà intellettuale. Il ruolo di queste organizzazioni, come l’Unicef, ha perso credibilità, sono diventati burattini in mano ai potenti. Anche le Nazioni Unite non hanno avuto il coraggio di prendere decisioni sulla Siria. E come ha ricordato lei non parlano del bene, enorme, che viene fatto.

Si censura il bene, si esalta il male?
   Vivo ad Aleppo da quando è cominciata la guerra e la Chiesa si è sempre mossa per tutti, non solo per i cristiani . 
La comunità cristiana a Idlib è sotto il tallone jihadista, ci sono centinaia di cristiani ostaggi in quella regione. Sono rimasti solo due sacerdoti francescani di rito latino, che però continuano a servire tutte le comunità, non solo la comunità latina, ma anche quelle armena e greco-ortodossa, e stanno cercando in tutti i modi di aiutare, sia a livello umanitario, sia a livello spirituale. Accolgono nei conventi e nelle case dei cristiani anche i musulmani in fuga. Eppure questi due sacerdoti sono sottoposti a ogni limitazione, non possono manifestare la loro fede, rischiano ogni giorno di essere rapiti o uccisi.

Intanto i giornali occidentali accusano Assad di stragismo…
   Un proverbio italiano dice che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Questi due sacerdoti vivono una fede umana e coraggiosa, aperta a tutti. Voi giornalisti che avete una coscienza e il coraggio di dire la verità parlate della presenza eroica di queste persone e della loro straordinaria testimonianza in un contesto di persecuzione.

Alla fine, in tutta questa tragedia, si può dire che resteranno impressi i gesti di carità compiuti eroicamente da questi uomini santi?
  È il compito di noi cristiani: essere lievito e sale del mondo.

mercoledì 18 dicembre 2019

Continuare a testimoniare l’amore pietoso di Cristo alla Siria: Frati francescani che rimangono nella guerra


Padre Firas Lutfi è siriano, francescano di Terra Santa, ministro della Regione San Paolo che comprende oltre la Siria, il Libano e la Giordania. Nonostante la guerra, è rimasto in Siria, con la sua gente. A Vatican News, racconta nove anni di violenze, di distruzione e di morte. E come oggi aiuta i bambini a ritrovare il sorriso
di Silvonei Protz
   A guardare le televisioni, ascoltare la radio o leggere i giornali, sembra che la guerra sia finita in Siria. I media non ne parlano più, o quasi. Questo rimpiange padre Firas Lutfi, francescano di Terra Santa, ma soprattutto siriano in Siria. Ci tiene molto, perché nel suo paese è rimasto per tutti gli anni della guerra. “E’ vero che in alcune zone sono cessati i combattimenti - dice - però dobbiamo tenere conto di una realtà: la guerra è durata nove anni. C’è stata una massiccia distruzione, case demolite, quartieri interamente in rovina, chiese che necessitano di un intervento per la ricostruzione... Metà della popolazione, parliamo di 23 milioni prima della guerra, non c’è più, tra morti, profughi e sfollati”.
Così padre Firas descrive l’attuale situazione del suo paese, dove la vita è molto difficile. Demografia e economia in ginocchio. I giovani sono andati via. Bambini e donne, che siano quelli rimasti o quelli che oggi vivono nei campi profughi, soffrono di profondi traumi psicologici. Le sanzioni economiche, l’embargo “che l’Occidente purtroppo continua a rinnovare contro la Siria, pensando di colpire i responsabili della guerra” colpiscono in realtà la gente normale, gli innocenti, i bambini e i più poveri. Quindi attualmente è una lotta per la sopravvivenza, contro la povertà. Padre Firas vede intorno a sé una grande desolazione anche se gran parte del territorio è stato liberato dai jihadisti “venuti da tutte le parti del mondo, da più di 60 nazioni”. Gli ultimi fondamentalisti si sono raggruppati nella zona di idlib, l’ultima roccaforte. “Sono stranieri indesiderati nei loro Paesi di origine che non vogliono più farli rientrare”. L’analisi del francescano gela: “La guerra in Siria purtroppo è diventata oggetto di troppi interessi internazionali. Non è più una lotta contro un regime, non è più una lotta per una democrazia, per la libertà di parola, di coscienza, ma è una guerra internazionale che vede coinvolti i russi, gli americani, gli europei e anche l’Iran, la Turchia e i Paesi del Golfo, ciascuno con i suoi alleati”. Questa guerra, padre Firas, la chiama anche “tsunami”, perché ha spazzolato tutto. “La Siria continua ancora a sanguinare”, dichiara con gli occhi lucidi. Aspetta la salvezza, ovvero, l’intervento di persone sagge che si mettono a programmare la pace. Recentemente, un giovane gli diceva di non più avere la forza per combattere, per lottare. Che non viveva, ma sopravviveva senza nemmeno osare alzare lo sguardo verso l’orizzonte.

Alla ricerca di soluzioni

Come chiesa, come francescano, Padre Firas non si è mai rassegnato. Certo, in alcuni momenti sembrava che tutto crollasse e che non ci fosse nulla da fare. Ma non può un cuore francescano, abbandonare. Allora si è messo a cercare possibili soluzioni. “Come fare par aiutare la mia gente?” si è chiesto tante volte. Già faceva tanto la comunità francescana mondiale. Grazie alla solidarietà, grazie anche a tanti benefattori, si sono potuto distribuire pacchi alimentari e dell’acqua potabile, perché in guerra spesso, è la prima cosa che viene crudelmente a mancare. Ma sono anche stati distribuiti soldi per finanziare micro progetti, per aiutare giovani sposini a fare i primi passi e costruire una famiglia. “Questi progetti sono testimonianze che il Signore dà e continua a dare”.

Accanto a questo dramma, a questa tragedia, padre Firas ha toccato con mano la presenza di Dio in maniera magnifica, e la Chiesa è stata sempre accanto al popolo sofferente. Alcuni pastori, sotto la pressione continua della guerra hanno dovuto andarsene, però, la maggioranza, i vescovi, sacerdoti e tanti ordini religiosi hanno deciso di restare in Siria. E cita come esempio due dei suoi compagni francescani che oggi vivono nel nord, nella zona vicina al confine con la Turchia, a pochi passi da Antiochia, la famosa e storica Antiochia: “Loro vivono sotto il controllo non del regime di Assad ma dei jihadisti. E cosa fanno lì? Stanno a custodire il piccolo gregge dei cristiani rimasti”. Con i due religiosi, ci sono circa 200 cristiani che portano non solo nel loro DNA il cristianesimo, ma che anche sopportano le sofferenze per portare avanti una presenza concreta, storica, di tutto il patrimonio cristiano di 2000 anni ad Antiochia dove, per la prima volta, i cristiani hanno preso il nome dignitoso di “seguaci di Cristo”.
Oggi ancora, nonostante le mille difficoltà, stanno lì, accanto a questi due frati francescani della Custodia di Terra Santa, per continuare a testimoniare l’amore di Cristo, tenero, misericordioso, pietoso verso questo piccolo gregge.
 Padre Firas Lutfi e i bambini del progetto Arte terapeutica
Padre Firas Lutfi e i bambini del progetto Arte terapeutica

Rivedere un sorriso sul viso dei bambini

Sono in corso due progetti per i bambini della Siria. Uno, nella città di Aleppo, dove padre Firas ha vissuto durante la guerra. Il progetto si chiama «arte terapeutica». Dietro questa denominazione c’è una intera squadra di persone e specialisti che fa il possibile per aiutare i bambini a riprendersi dal quel trauma psicologico che li ha toccati profondamente. Così ne parla il francescano: «Si tratta di un grande centro dove c’è la musica, lo sport, il nuoto. Abbiamo provveduto a una bella piscina perché durante la guerra non potevano giocare, uscire di casa, studiare, per la paura di essere uccisi».  
Nel corso dell’estate in mille hanno frequentato il centro: il personale e gli psicologi hanno cercato di aiutare questi bambini a trovare un senso profondo per la loro vita e la loro esistenza.
Esiste anche un altro progetto molto interessante. «Ad Aleppo est vivono e vivevano solo musulmani.» Inizia così la descrizione di padre Firas. «Durante la guerra la loro terra è stata occupata dai jihadisti, quindi li hanno maltrattati, le donne sono state violentate, i bambini massacrati... I bambini hanno visto tutte le scene drammatiche delle gole tagliate e dei maltrattamenti ad opera dei fanatici». Successivamente, racconta dei matrimoni più o meno forzati di jihadisti con donne siriane e dei bambini nati da queste unioni, la cui esistenza non è ufficiale. Non esiste una registrazione all’anagrafe. Sono lì, fisicamente in vita, ma giuridicamente inesistenti. Quando, nel 2017 i jihadisti hanno lasciato Aleppo, la situazione trovata da padre Firas era terrificante: «Bambini di 4 o 5 anni che vivono con la mamma o a volte con la nonna perché i genitori non ci sono più. Alcuni sono abbandonati a loro stessi e alla sorte. Non hanno mai frequentato la scuola. Per non parlare del dramma psicologico e dell’accumulo di paure, di terrore, che hanno subito durante i combattimenti».
  Sono stati creati due centri che ospitano ciascuno 500 bambini e bambine dai 3,4 anni fino a 16 anni. Ed è stato esteso il programma che già era in atto nel suo convento, il collegio Terre Sainte ad Aleppo. Il sacerdote francescano tiene a sottolineare che i due centri nascono da un’amicizia con il mondo musulmano: «Il mufti di Aleppo è un nostro carissimo amico – spiega - e con il vescovo vicario apostolico della comunità latina della Siria, è nata una grande amicizia prima e, soprattutto, durante la guerra. Quindi un primo frutto è stato una stretta collaborazione per salvare l’innocenza di questi bambini».
  Questo progetto, questa collaborazione con i musulmani, ha un forte significato per padre Firas. Dimostra la possibilità di dare un senso alla vita, un senso profondo, un senso all’esistenza e dimostra che non è mai troppo tardi per agire e fare del bene. E aggiunge: «Il dialogo non si fa solo intorno a un tavolo ma si fa lavorando insieme, mano nella mano, cuore a cuore. E lì nasce la vera ricostruzione della Siria che verrà nel tempo. Può darsi che ci vogliano 30, 50 anni, ma la vera ricostruzione non nasce dai mattoni ma dalla ricostruzione dell’uomo, dell’umano dentro di noi».

La Siria come missione

Quando si chiede a padre Firas perché è rimasto in Siria, risponde in questo modo: «Perché sì, perché sono francescano, credente e quando il Signore mi ha creato lì, è stato per una missione, per essere il Suo volto, le Sue braccia, le Sue gambe che portano l’annuncio, la tenerezza e la misericordia di Dio».
E’ stato «chiamato», padre Firas, chiamato da Dio per vivere la realtà, anche drammatica, della «sua» Siria. Il suo «sì» all’esistenza è un «sì» motivato e convinto che lo sostiene nel superamento delle difficoltà. In Siria, ogni giorno si soffre e si muore. E così conclude: «E’ esattamente come il chicco di grano: se non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto, come dice Gesù nel Vangelo».

martedì 23 luglio 2019

Nuovo appello del Papa: “Che si affretti la pacificazione della Siria!”. Confermiamo: per Idlib, per Aleppo, per la Siria tutta!

In un comunicato apparso sul sito del Patriarcato Melkita, sua Beatitudine il Patriarca Joseph Al-Absi esprime il suo gradimento circa la visita del Cardinale Turkson, accompagnato da S.E. Nunzio Zenari, al popolo siriano e alla leadership siriana: “con un messaggio di amore e pace trasmesso al popolo siriano e alla leadership siriana, ha iniziato la sua visita in un incontro con il presidente siriano Bashar al-Assad e ha trasmesso un messaggio di Sua Santità che esprimeva il suo sostegno alla Siria”.

OraproSiria, con i religiosi siriani, accoglie con speranza l'intervento del Papa: l'appello alla pace è sempre importante, soprattutto aiuta a non dimenticare il dramma di un popolo in guerra.  Ma è importante sottolineare anche la risposta che lo Stato siriano ha dato a questa interpellanza: se si vuole la pace, occorre che chi arma il conflitto dall'esterno venga messo alle strette, sia fatto oggetto di pressione internazionale da chi può..   E, aggiungiamo noi, che si smetta di celebrare come eroi persone che hanno compiuto stragi indossando e sdoganando in Occidente un elmetto bianco come fossero un gruppo di angeli della salvezza, quando sono una organizzazione terroristica..  Occorre ricordare anche le vittime che ancora i terroristi di Idleb continuano a mietere, come ci ricordano le testimonianze qui sotto.

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Susanne Der Karkour, 61 anni,
insegnante cristiana,
violata per 9 ore,
 assassinata e lapidata
dai jihadisti di Idlib

Padre Firas, francescano, da Aleppo ribadisce a Radio VaticanaNon dimenticare i cristiani di Idlib

"A Idlib la crisi umanitaria è più grave che altrove per quanto riguarda i cristiani in quanto i jihadisti li hanno cacciati da casa, li hanno uccisi. L’ultimo episodio è accaduto una settimana fa: una professoressa cristiana è stata violentata e alla fine lapidata. "La situazione è davvero preoccupante” afferma padre Lutfi."

(ascolta qui l'appello audio)

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Da Aleppo, il volontario Pierre le Corf, comunica brevemente il drammatico bombardamento accaduto nella giornata di ieri:


Ho smesso di pubblicare, ho provato a staccare, ma tutto non fa altro che ricominciare sempre peggio... Gli attacchi si moltiplicano, le persone muoiono e a decine sono feriti, i terroristi hanno fabbricato missili grad e munizioni che aumentano le loro capacità di gittata...
Ieri nella strada in cui ero, un'ora dopo è stato un massacro... La piccola Nawal ha avuto la gamba strappata da un proiettile; ieri altri non hanno nemmeno avuto questa chanche...
Nel frattempo in Europa, i grandi titoli su un cosiddetto portiere di calcio cantante della rivolta o un eroe dei caschi bianchi che difendono "la libertà" uccisi nei bombardamenti dell'aviazione... 
La loro storia indorata all'oro puro, darebbe quasi pure a me lacrime agli occhi se non sapessi che uno faceva parte di al-Nusra e l'altro dell'ISIS, con tanto di foto e video a sostegno...
Tutto ricomincia come fu per Aleppo, le bugie e le manipolazioni... E intanto dove sono i grossi titoli su tutti i bambini e le persone che muoiono qui? Dove è la piccola Nawal??

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Per conoscenza: DaIl'istituto di medicina legale di Aleppo, ecco il risultato dei morti per attacchi missilistici durante la settimana: 15 martiri, più 34 feriti a causa dei razzi lanciati da Al-Nusra e i suoi alleati sui civili abitanti nella città di Aleppo..

domenica 26 maggio 2019

Padre Firas Lufti, francescano: “Si torna a parlare dell’uso di armi chimiche per creare un falso pretesto che giustifichi al mondo un nuovo attacco internazionale alla Siria”


di Luca Collodi

Le autorità siriane e russe intendono aprire dei corridoi umanitari per consentire ai civili del nord-ovest del Paese di mettersi in salvo dall'offensiva militare in corso nella regione di Idlib contro le milizie jihadiste. Lo riferisce la tv al-Mayadin, vicina al governo di Damasco. Nell'area sono ammassati circa tre milioni di civili. Raggiunto telefonicamente ad Aleppo il padre Firas Lufti, francescano della Custodia di Terra Santa e superiore del Collegio francescano di Aleppo, della situazione nella città siriana racconta ai microfoni di Radio Vaticana Italia: 
R. - A due anni dalla liberazione, Aleppo, città nella quale i jihadisti si erano installati nella parte storica, è stata riunificata. Non si parla più di Aleppo Est e di Aleppo Ovest. Una parte di questi jihadisti si trovano però nelle vicinanze di Aleppo, verso la provincia di Idlib, roccaforte intorno alla quale ancora infuriano battaglie per la riconquista. Ad Idlib, infatti, si sono rifugiati centinaia di migliaia di jihadisti. 
Da 15 giorni sono stati registrati lanci di missili e di razzi dalla parte occupata dai jihadisti proprio sul cuore della città, abitato dai civili dove non ci sono centri militari o soldati. Risulta che ci sono sempre vittime, bambini e donne innocenti. Quindi i jihadisti lanciano i loro missili per dire che sono lì e vogliono esprimere una sorta di solidarietà con quella parte della Siria.

Gli Stati Uniti hanno il sospetto che la Siria abbia usato armi chimiche, ma è un sospetto che viene smentito un po’ da tutti 
R. – Questa è un’antifona purtroppo suonata fin dall’inizio del conflitto. I media sono stati sempre usati come arma, più efficace e più distruttivi dell’arma della guerra nel senso vero della parola. La disinformazione e soprattutto le agenzie dei caschi blu – o caschi bianchi – hanno detto molte bugie. Si ritorna al discorso delle armi chimiche per creare un pretesto per attaccare ancora di più la Siria e cercare di coinvolgere il mondo per ottenere un’opinione internazionale che giustifichi – tra virgolette – un intervento militare. Magari americano o altro, per legalizzare una manovra che andrebbe soltanto a peggiorare la situazione. Invece di trovare soluzioni concrete, politiche di dialogo, di incontri, si ricorre purtroppo subito alla violenza massiccia come se ci fosse una resistenza, una non volontà di fare la pace e di farla finita. La gente è veramente stanca di questa guerra. Questa antifona non è un buon segno e non è un buon segnale.

Sul piano umanitario, la vita ad Aleppo e in Siria sta tornando alla normalità? Le famiglie stanno ritornando a casa?
R. – Come Chiesa aleppina, abbiamo subito una perdita passando da 160 mila cristiani che eravamo prima del conflitto a 30 mila – quasi 30 mila – cristiani rimasti oggi. Questo calo drammatico e drastico è significativo per i cristiani, per il loro presente e per il loro futuro, per il peso che il loro ruolo potrà avere come cittadini della Siria. E questo fenomeno si può estendere a tutte le aree e a tutte le città siriane. Per quanto riguarda il lato umanitario, forse si sta passando dall’emergenza vera e propria, con la mancanza di acqua, elettricità e cibo, ad una fase che comunque non è meno difficile della prima. 
Non siamo passati, cioè, allo sviluppo e ad un salto qualitativo nella società perché l’embargo ha ancora conseguenze sulla società siriana. Se, per esempio, lei volesse mandarmi 50 euro per aiutarmi, non potrà farlo tramite le banche perché quando si scrive “Siria – Aleppo”, i denari vengono bloccati.

domenica 2 luglio 2017

Fra Firas: ciò che resta è la carità

Nella guerra in Siria la Russia non è solo una presenza politica e militare, ci sono anche legami nati dalla comune radice cristiana. J.F. Thiry è andato da Mosca a Damasco per offrire l’esperienza di un lavoro culturale che aiuti a ricostruire l’uomo.
La Nuova Europa, 26 giugno
Nella ventina di progetti che i francescani di Aleppo stanno seguendo per riportare speranza e dignità in questa città siriana, divenuta simbolo della «terza guerra mondiale», c’è anche quello di usare la cultura per ricostruire ponti. Ne ha parlato padre Firas Lutfi, superiore del collegio di Terra Santa e vice-parroco di San Francesco ad Aleppo, nell'intervista rilasciata a Jean-François Thiry.
 
Qual è la situazione attuale ad Aleppo?
A partire dal 22 dicembre scorso la città sta vivendo una rinascita. Durante gli ultimi cinque anni abbiamo sentito solo il sibilo e lo scoppio delle bombe. Uno scenario di pianto, sangue, innocenti uccisi barbaramente da entrambe le parti, sia nella parte controllata dal regime sia nella cosiddetta zona orientale. Il 22 dicembre con la mediazione russa è stato raggiunto un accordo tra l'esercito siriano e le varie fazioni di jihadisti. Alcuni hanno deposto le armi e sono rientrati nella società civile, altri hanno deciso di continuare a combattere. Dunque il 22 dicembre ha segnato un nuovo inizio per questa città martire, la più colpita, che ha portato su di sé il peso della guerra. Certo, qui la battaglia è finita, ma non la guerra che si continua a combattere nel resto della Siria, a Raqqa, Idlib, nel Nord… I segni visibili della guerra sono scomparsi, riusciamo a dormire più tranquillamente, dopo notti e notti di allerta e paura!
Ma è una città in ginocchio: non dimenticherò mai l'impatto che ho avuto attraversando la cittadella, sembrava la Berlino della Seconda guerra mondiale, una distruzione totale… Ora i media occidentali non parlano più di Aleppo, come se tutto fosse tornato alla normalità. È vero che la battaglia non c'è più, ma si continua a combattere in periferia e altrove, e alla fine il dramma della guerra ricade ancora qui. Continua la carenza d'acqua, sarebbe necessario ripristinare le infrastrutture, anche se i momenti duri in cui uno doveva stare per ore ad attingere un po' d'acqua sono passati.
 
E dal punto di vista umano? Sta rinascendo una speranza? Qual è il lavoro principale da fare?
Il lavoro principale è ritrovare l'uomo. Tante ferite – come quelle sugli edifici – sono ben visibili, ma quelle che hanno segnato in profondità l'animo di ogni cittadino, sia di Aleppo Est che di Aleppo Ovest, sono sentite in modo particolare dai bambini e dagli anziani. Ci sono migliaia di anziani abbandonati dalle famiglie giovani che hanno dovuto scappare, e io personalmente lavoro nel recupero dei traumi post-bellici nei giovani. Mi sto occupando ad esempio di alcune ragazze sui 13-14 anni che hanno tentato il suicidio: c'è chi non riesce a dimenticare il momento in cui una bomba ha ucciso una compagna di scuola, chi ha perso i genitori e si trova nella preoccupazione costante di vivere da sola… Questi disturbi sono il frutto di una violenza enorme che hanno assorbito come una spugna, perciò l'animo di questi poveretti è tutto da ricostruire. Sicuramente c'è da ricostruire la struttura di una città antichissima, ma prima di tutto c'è da ricostruire l'essere umano che è stato ferito e danneggiato.
 E la vostra parrocchia come interviene?
La parrocchia prosegue quel che aveva iniziato a fare all'inizio della guerra, ad esempio distribuisce pacchi alimentari – l'emergenza non è cessata, siamo ancora in una fase di passaggio. Oppure cerchiamo di assistere le coppie giovani, perché la presenza cristiana prima era di 150mila fedeli, ora siamo rimasti solo 30mila, quindi c'è stato un calo demografico enorme, ecco perché va sostenuto il dono della vita. Seguiamo circa 800 coppie, di tutti i riti, non solo della nostra parrocchia.
La guerra, per terribile che sia, ha facilitato un contesto di solidarietà, di partecipazione, di carità, aperta ai fratelli nella fede e a tutti. Sosteniamo anche la ristrutturazione delle abitazioni, in modo che le famiglie non se ne vadano: il nostro obiettivo è anzitutto quello di aiutare i cristiani a rimanere, a non cedere alla forte tentazione di andarsene. È chiaro che il governo non riesce a coprire le esigenze e le aspettative dei cittadini, per cui la Chiesa sta supplendo anche al ruolo delle istituzioni: ce la mettiamo tutta a sostenere questa scintilla di speranza.
 Tutto ciò rientra nell'«ecumenismo del sangue»?
Sì, questa espressione l'ha usata papa Francesco quando si è incontrato con il patriarca di Costantinopoli, un bellissimo incontro che sintetizza cosa significa essere fratelli, e non solo della stessa famiglia. Il papa intende dire che quando uno jihadista sta per ucciderti non ti chiede se sei ortodosso, cattolico o protestante, ma se sei cristiano. Anche recentemente in Egitto: agli ostaggi gli jihadisti chiedevano di rinnegare la fede cristiana, non se fossero copti o protestanti… Ecco, molti innocenti sono martiri per Cristo.
Era una sensibilità già presente qui. Poi, durante la guerra, nel momento di assoluto bisogno, noi come comunità cattolica abbiamo avuto il vantaggio di avere fratelli sparsi in tutto il mondo, siamo parte della Chiesa universale, sentiamo la vicinanza dei nostri benefattori. I superiori del nostro Ordine francescano hanno lanciato l'appello già all'inizio della guerra, e l'aiuto che ci arriva lo condividiamo con i nostri fratelli, un po' come è descritto negli Atti degli apostoli.
 A Lei, come ai tanti che ancora se ne vanno, non è mai venuta la tentazione di dire «non ce la faccio»? Che cosa permette di ricominciare ogni giorno, di fronte a un lavoro così enorme?
Una volta un giornalista mi ha chiesto: Perché resti lì? Gli ho risposto: non «perché» ma «per Chi». E non è solo il mio caso, lo vedo anche nei miei confratelli. «Per Chi». Credo che abbiamo sperimentato la mano del Signore anche in mezzo al buio totale, a questo tunnel di cui non si vedeva l'uscita.
Una ragazza in confessione mi ha chiesto: ma perché Dio permette questo male, se è il Dio della bontà e della misericordia? E un'anziana: dove sono i nostri fratelli sparsi nel mondo? Perché non si muovono? Alla prima domanda mi è venuto in mente un crocifisso che abbiamo trovato in un quartiere di Aleppo completamente distrutto, era rimasto appeso senza braccia, qualcuno gli aveva anche sparato in faccia… Ecco, i segni di sofferenza ci sono, ma Lui è ancora lì, è lì «appeso», presente. È un Dio che sa condividere, che già duemila anni fa ha offerto fisicamente la vita per amore, e lo continua a fare. Qui ora siamo a Damasco, famosa per l'episodio collegato alla conversione di san Paolo. «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», chiede Gesù – e Saulo, poveretto: ma chi sei? E lui risponde: sono Gesù che tu perseguiti. Era già morto e risorto, e si riferiva al Suo corpo mistico sofferente. Dio è fortemente presente accanto a chi soffre e piange.
Dove sono i nostri fratelli? Siamo dei testimoni perché facciamo da ponte, nel corpo soffriamo con chi soffre, gioiamo e diamo speranza a chi l'ha persa. Però sappiamo che dall'altra parte del continente ci sono molti amici che pregano per noi, ci sostengono fortemente in questa unità di preghiera, siamo corpo di Cristo, membra gli uni degli altri. Certo, anche il sostegno economico è indispensabile per sostenere questa speranza. Non posso limitarmi a consolare un povero dicendo: beh, io non ho niente da darti, ma intanto preghiamo insieme… No: qualcosa ce l'abbiamo, ed è un dono di Dio e dei fratelli.
 
Cosa ritiene che l'Europa, o la Russia, possano fare?
Il primo dono che ogni siriano desidera è la pace. Se soffriamo è per la guerra. Qualcuno, con la violenza, ha cercato di dividere la società che era già diversificata, era un mosaico di etnie, confessioni e culture. Qualcuno ha gettato benzina sul fuoco della divisione, per questo il primo dono che desideriamo è la pace.
La Russia può e dovrebbe – non da sola – trovare modi per far sì che si ponga fine a questa guerra che non è semplicemente una guerra civile, perché non sono solo i siriani che combattono fra di loro, ma esistono tante fazioni con un altissimo numero di mercenari stranieri che combattono per interesse. La Russia, l'America, non dovrebbero guardare alla Siria solo considerando i propri interessi, ma aiutare il paese a ottenere la stabilità, e un segno concreto sarebbe la rimozione dell'embargo economico. La guerra in Siria è la più terribile del XXI secolo, molto complessa, anche perché legata all'Iraq, alla Libia, all'intero Medio Oriente.
Noi come francescani in Siria costruiamo la pace ogni giorno, con gesti apparentemente insignificanti. All'istituto di teologia per laici, di cui sono direttore, vengono ortodossi, cattolici… Sono responsabile di una realtà bellissima, perché varia, e lì sperimento come si può costruire la pace, mettendo assieme piccoli mattoni.
Lo so, dopo le nostre testimonianze in Occidente, ci chiedono: concretamente, cosa possiamo fare? L'invito primo e più efficace è l'unità spirituale, la preghiera, perché siamo veramente il Corpo mistico, come scrive san Paolo ai Corinzi: se un membro soffre, tutti gli altri soffrono con lui. In questo momento le membra di Cristo sofferenti patiscono in Siria tantissimo. D'altra parte è altrettanto importante la carità concreta, visibile. La carità nel Vangelo è stata sempre concreta: nessuno ha un amore più grande di chi dà la propria vita. L'amore allora non è solo sentimento ma la vicinanza concreta al prossimo, una piccola somma, qualche piccolo sacrificio: quanti amici hanno rinunciato ai doni del matrimonio per aiutare la Siria! Ultimamente un amico vescovo appena ordinato in Germania mi ha detto: le offerte della messa di ordinazione verranno inviate per sostenere il progetto di assistenza psicologica ai bambini.
Mi viene in mente madre Teresa, che era un'esperta nell'aiutare i poveri, e diceva che ogni gesto di bene che si fa è una goccia nell'oceano, e che l'oceano non sarebbe lo stesso senza questa goccia.
Tutto ciò aiuta a dare speranza, a dare le ragioni per rimanere e continuare la presenza dei cristiani. Un travaglio come questo genera una cristianità più purificata e motivata. Se il Signore ci ha voluti lì è perché c'è una missione, dobbiamo portare sempre l'amore di Cristo verso ogni persona, essere dei ponti di riconciliazione e dialogo. Penso a tutto il Medio Oriente con le sue religioni monoteiste, dove i cristiani fanno da ponte perché hanno una parola magica… poco conosciuta dalle altre: il perdono! Siamo portatori di pace, carità, servizio, e durante la guerra ci siamo resi conto che questa carità visibile e umile riesce a conquistare l'altro. Non facciamo proselitismo, ma la carità resta impressa nel cuore. Mi ha raccontato un musulmano russo, venuto in visita dalla madre ad Aleppo, che lei era così contenta quando gli ha mostrato una coperta donatale dai cristiani, e le scarpe distribuite dalla Caritas. Mi ha detto: Quello che fate rimarrà sempre impresso nella memoria. È quello che scriveva san Paolo: la carità è ciò che resta.
 
E come è possibile fare un'offerta, dare un aiuto concreto?
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